SESSIONE XXIV (11 novembre 1563)
(Dottrina sul sacramento del matrimonio).
Il vincolo del matrimonio fu dichiarato solennemente
perpetuo e indissolubile dal primo padre del genere umano quando disse, sotto
l’ispirazione dello Spirito santo: Questo, ora, è osso delle mie ossa e
carne della mia carne. Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà
alla propria moglie: e saranno due in una sola carne (375).
Che questo vincolo dovesse unire e congiungere due persone
soltanto, Cristo Signore lo insegnò più apertamente, quando, riferendo quelle
ultime parole come pronunciate da Dio, disse: Quindi, ormai non sono più
due, ma una sola carne e immediatamente confermò la stabilità di quel
vincolo, affermata da Adamo tanto tempo prima, con queste parole: L’uomo,
quindi, non separi quello che Dio ha congiunto (376).
Lo stesso Cristo, autore e perfezionatore dei santi
sacramenti, con la sua passione ci ha meritato la grazia, che perfezionasse
quell’amore naturale, ne confermasse l’indissolubile unità e santificasse gli
sposi. Cosa che Paolo apostolo accenna, quando dice: Uomini, amate le vostre
mogli come Cristo ha amato la chiesa ed ha sacrificato se stesso per essa
(377). E poco dopo soggiunge: Grande è questo sacramento. Io dico in Cristo
e nella chiesa (378).
Poiché, quindi, il
matrimonio nella legge evangelica è superiore per la grazia di Cristo agli
antichi matrimoni, giustamente i nostri santi padri, i concili e la tradizione
della chiesa universale hanno sempre insegnato che si dovesse annumerare tra i
sacramenti della nuova legge.
Insanendo contro di
essa, uomini empi di questo secolo non solo si sono formati un’opinione falsa
di questo venerabile sacramento, ma secondo il proprio costume, col pretesto
del vangelo hanno introdotto la libertà della carne e con la bocca e con gli
scritti hanno affermato molte cose aliene dal senso della chiesa cattolica e
dalla tradizione approvata dai tempi degli apostoli, non senza grande danno dei
fedeli cristiani.
Perciò il santo e
universale sinodo, volendo opporsi alla loro temerità, ha determinato di
sterminare le eresie e gli errori più notevoli di questi scismatici e di
stabilire contro gli stessi eretici ed i loro errori i seguenti anatematismi.
CANONI SUL SACRAMENTO
DEL MATRIMONIO
1. Se qualcuno dirà
che il matrimonio non è in senso vero e proprio uno dei sette sacramenti della
legge evangelica, istituito da Cristo, ma che è stato inventato dagli uomini
nella chiesa, e non conferisce la grazia, sia anatema.
2. Chi dirà che è
lecito ai cristiani avere nello stesso tempo più mogli e che ciò non è proibito
da alcuna legge divina, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà
che solo i gradi di consanguineità e di affinità enumerati nel Levitico (379)
possono impedire di contrarre il matrimonio e possono sciogliere uno già
contratto e che la chiesa non può dispensare da qualcuno di essi o costituirne
in numero maggiore che lo impediscano e lo sciolgano, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà
che la chiesa non poteva stabilire degli impedimenti dirimenti il matrimonio, o
che stabilendoli ha errato, sia anatema.
5. Se qualcuno dirà
che per motivo di eresia o a causa di una convivenza molesta o per l’assenza
esagerata dal coniuge si possa sciogliere il vincolo matrimoniale, sia anatema.
6. Se qualcuno dirà
che il matrimonio rato e non consumato non venga sciolto con la professione
solenne di uno dei coniugi, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà
che la chiesa sbaglia quando ha insegnato ed insegna che secondo la dottrina
evangelica ed apostolica (380) non si può sciogliere il vincolo del matrimonio
per l’adulterio di uno dei coniugi, e che l’uno e l’altro (perfino l’innocente,
che non ha dato motivo all’adulterio) non possono, mentre vive l’altro coniuge,
contrarre un altro matrimonio, e che, quindi, commette adulterio colui che,
lasciata l’adultera, ne sposi un’altra, e colei che, scacciato l’adultero, si
sposi con un altro, sia anatema.
8. Se qualcuno dirà
che la chiesa sbaglia quando, per vari motivi, stabilisce che si può fare la
separazione dalla coabitazione tra i coniugi, a tempo determinato o
indeterminato, sia anatema.
9. Se qualcuno dirà
che i chierici costituiti negli ordini sacri o i religiosi che hanno emesso
solennemente il voto di castità, possono contrarre matrimonio, e che questo,
una volta contratto, sia valido, non ostante la legge ecclesiastica o il voto,
e che sostenere l’opposto non sia altro che condannare il matrimonio; e che
tutti quelli che sentono di non avere il dono della castità (anche sé ne hanno
fatto il voto) possono contrarre matrimonio, sia anatema. Dio, infatti, non
nega questo dono a chi lo prega (381) con retta intenzione e non permette che
noi siamo tentati al di sopra di quello che possiamo (382).
10. Se qualcuno dirà
che lo stato coniugale è da preferirsi alla verginità o al celibato e che non è
cosa migliore e più beata rimanere nella verginità e nel celibato, che unirsi
in matrimonio (383), sia anatema.
11. Se qualcuno dirà
che la proibizione della solennità delle nozze in alcuni periodi dell’anno è
una superstizione tirannica, che ha avuto origine dalla superstizione dei
pagani o condannerà le benedizioni e le altre cerimonie, di cui la chiesa fa
uso in esse, sia anatema.
12. Se qualcuno dirà
che le cause matrimoniali non sono di competenza dei giudici ecclesiastici, sia
anatema.
CANONI SULLA RIFORMA
DEL MATRIMONIO
Capitolo I
Quantunque non si
debba dubitare che i matrimoni clandestini, celebrati con il libero consenso
dei contraenti, siano rati e veri matrimoni, almeno fino a che la chiesa non li
abbia dichiarati invalidi, - e che, quindi, a buon diritto debbano condannarsi
(come il santo sinodo in realtà condanna) quelli che negano che essi siano veri
e rati e chi falsamente afferma che i matrimoni contratti dai figli senza il
consenso dei genitori siano nulli, e che questi possano invalidarli o
annullarli, - tuttavia la santa chiesa di Dio li ha sempre, per giustissimi
motivi, detestati e proibiti.
Il santo sinodo però
deve riconoscere che tali proibizioni per la disobbedienza degli uomini non
servono a nulla e considera i gravi peccati che nascono da questi matrimoni,
specie di coloro che rimangono in una condizione di dannazione, quando,
lasciata la prima moglie, con cui hanno contratto segretamente matrimonio, lo
contraggono pubblicamente con un’altra, e vivono con essa in perpetuo
adulterio. Ora la chiesa, che non giudica delle intenzioni occulte, non può
ovviare a questo male, se non provvede con qualche rimedio più efficace.
Seguendo, perciò, le orme del sacro concilio Lateranense
(384), celebrato sotto Innocenzo III, comanda che in avvenire, prima che si
contragga il matrimonio, per tre volte, in tre giorni festivi consecutivi il
parroco dei contraenti dichiari pubblicamente in chiesa, durante la santa
messa, tra chi debba contrarre il matrimonio. Fatte queste pubblicazioni, se
non si oppone alcun legittimo impedimento, si proceda alla celebrazione del
matrimonio dinanzi alla chiesa, dove il parroco, interrogati l’uomo e la donna,
ed inteso il loro mutuo consenso, dica: Io vi congiungo in matrimonio nel
nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, o si serva di altra
formula, secondo il rito consueto in ciascuna provincia.
Se poi in qualche
caso vi fosse il fondato sospetto che, facendo tante pubblicazioni, il
matrimonio potrebbe essere maliziosamente impedito, allora si faccia solo una
pubblicazione, o il matrimonio venga celebrato almeno alla presenza del parroco
e di due o tre testimoni. Quindi, prima della consumazione, si facciano le
pubblicazioni in chiesa, affinché se vi fosse qualche impedimento sia
facilmente scoperto, a meno che l’ordinario stesso non giudichi opportuno che
le predette pubblicazioni vengano omesse, cosa che il santo sinodo rimette alla
sua prudenza e al suo criterio.
Quelli che
tenteranno di contrarre matrimonio in maniera diversa da quella prescritta, e
cioè presente il parroco o altro sacerdote, con la licenza dello stesso parroco
o dell’ordinario e con due o tre testimoni, il santo sinodo li rende
assolutamente incapaci a contrarre il matrimonio in tal modo e dichiara nulli e
vani questi contratti; e col presente decreto li rende vani e li annulla.
Comanda, inoltre,
che siano gravemente puniti a giudizio dell’ordinario, il parroco e qualsiasi
altro sacerdote, che con minor numero di testimoni assistesse a tale contratto;
e i testimoni che lo facessero senza il parroco o altro sacerdote; ed anche gli
stessi contraenti.
Il santo sinodo,
inoltre, raccomanda che gli sposi, prima della benedizione sacerdotale - da
riceversi in chiesa - non abitino insieme nella stessa casa. Stabilisce anche
che la benedizione debba essere impartita dal proprio parroco e che nessun
altro, fuorché lo stesso parroco o l’ordinano, possa concedere la licenza di
dare questa benedizione ad altro sacerdote, non ostante qualsiasi consuetudine,
anche immemorabile, - che deve dirsi piuttosto corruzione - o privilegio.
Se un parroco od
altro sacerdote, sia regolare che secolare, - anche se crede di poterlo fare
per un privilegio o per una consuetudine immemorabile -, osasse unire in
matrimonio o benedire sposi di altra parrocchia, senza il permesso del loro
parroco, per disposizione stessa del diritto rimanga sospeso fino a quando non
sia assolto dall’ordinario del parroco che avrebbe dovuto assistere al
matrimonio, o che avrebbe dovuto impartire la benedizione.
Il parroco abbia un
registro, in cui scriva accuratamente i nomi dei coniugi e dei testimoni, il
giorno e il luogo in cui fu contratto il matrimonio, e lo conservi
diligentemente presso di sé.
Da ultimo, il santo
sinodo esorta i coniugi che prima di contrarre il matrimonio, o almeno tre
giorni prima della sua consumazione, confessino diligentemente i propri
peccati, e si accostino piamente al santissimo sacramento dell’eucarestia.
Se vi fossero poi
delle province che, oltre a queste, abbiano anche altre lodevoli consuetudini e
cerimonie, il santo sinodo desidera vivamente che vengano conservate.
E perché precetti
così salutari non debbano rimanere ignoti a qualcuno, comanda a tutti gli
ordinari che, non appena lo possano, facciano in modo che questo decreto venga
reso noto e spiegato al popolo in ogni chiesa parrocchiale delle loro diocesi.
Nel primo anno, ciò dovrà farsi spessissimo; poi, quando lo crederanno
necessario.
Stabilisce, inoltre,
che questo decreto cominci ad andare in vigore, in ogni parrocchia, a trenta
giorni dalla prima pubblicazione nella stessa parrocchia.
Capitolo II
L’esperienza insegna
che molte volte, per la moltitudine delle proibizioni, si contraggono
ignorantemente matrimoni in casi proibiti. Allora, o si continua nel matrimonio
non senza grande peccato o esso si scioglie non senza grave scandalo.
Il concilio, quindi,
volendo provvedere a questo inconveniente, a cominciare dall’impedimento della
parentela spirituale, stabilisce che solo uno, uomo o donna secondo le
prescrizioni dei sacri cànoni, o al massimo un uomo e una donna possano tenere
il battezzato al battesimo. Tra essi, il battezzato stesso e il padre e la
madre di lui, come pure tra il battezzante e il battezzato e il padre e la
madre del battezzato soltanto, si determini la parentela spirituale.
Il parroco, prima di
recarsi a conferire il battesimo, si informi diligentemente da quelli cui
spetta, quale o quali persone essi hanno scelto per ricevere il battezzato dal
sacro fonte, ed ammetta a tale ufficio soltanto quella o quelle; trascriva i
loro nomi nel registro, e li informi della parentela che hanno contratto,
perché non possano essere scusati da alcuna ignoranza.
Se poi anche altri
oltre quelli designati, toccassero il battezzato, questi non contrarranno in
nessun modo parentela spirituale. Le costituzioni in contrario non avranno
alcun valore. Se poi per colpa o negligenza del parroco si facesse
diversamente, sia punito a giudizio dell’ordinario.
Anche la parentela
che nasce dalla confermazione non deve estendersi oltre chi conferma e chi
viene confermato, suo padre e sua madre, e chi tocca il bambino. Tutti gli
impedimenti di questa parentela spirituale che riguardano altre persone siano
assolutamente aboliti.
Capitolo III
Il santo concilio
toglie del tutto l’impedimento di giustizia di pubblica onestà, quando gli
sponsali per qualsiasi motivo non fossero validi. Ma quando sono validi, non
oltrepassi il primo grado, poiché negli altri (gradi) questa proibizione non
può più essere osservata senza danno.
Capitolo IV
Questo santo sinodo,
inoltre, indotto da questi ed altri gravissimi motivi, restringe solo ai
parenti in primo e secondo grado l’impedimento che deriva dall’affinità
contratta con la fornicazione e che scioglie il matrimonio contratto in
seguito. E stabilisce che negli altri gradi questa affinità non scioglie il
matrimonio contratto in seguito.
Capitolo V
Chi consapevolmente
credesse di poter contrarre matrimonio nei gradi proibiti, sia separato e non
abbia alcuna speranza di ottenere la dispensa. Ciò si osservi in modo
particolare con chi osasse non solo contrarre il matrimonio, ma consumarlo. Se
poi l’avesse fatto per ignoranza, per aver trascurato le solennità prescritte
nel contrarre il matrimonio, sia soggetto alle stesse pene: non è degno,
infatti, di trovar facilmente benevolenza presso la chiesa, chi ha trascurato i
suoi salutari ammonimenti. Ma se, pur essendosi attenuti alle forme, in seguito
si venisse a conoscere qualche impedimento, di cui egli, probabilmente, non ha
avuto conoscenza, in questo caso più facilmente - e gratuitamente - gli si
potrà concedere la dispensa.
Per i matrimoni da
contrarre non si concedano assolutamente dispense, o raramente; ciò, inoltre,
non senza motivo e gratuitamente. Nel secondo grado non si dispensi mai, se non
tra grandi principi e per un pubblico motivo.
Capitolo VI
Il santo concilio stabilisce che tra il rapitore e la
persona rapita non possa aver luogo alcun matrimonio, per tutto il tempo che
essa rimane in potere del rapitore. Se la persona rapita, separata dal rapitore
e posta in luogo sicuro e libero, acconsentisse ad averlo per marito, il
rapitore la prenda pure in moglie, ma il rapitore stesso e tutti quelli che gli
hanno dato il loro consiglio e prestato il loro aiuto e il loro favore siano ipso
iure scomunicati, infami per sempre e incapaci di qualsiasi dignità. Se poi
fossero chierici, decadano dalla propria condizione. Il rapitore, inoltre, sia
che la sposi, sia che non la sposi, sia obbligato a dare una dote alla persona
rapita, proporzionata alla sua condizione, secondo la decisione del giudice.
Capitolo VII
Vi sono molti che
vagano qua e là e non hanno fissa dimora. Poiché sono di indole cattiva,
abbandonata la prima moglie, ne prendono un’altra, o addirittura più, in
diversi luoghi, mentre essa vive ancora. Il santo sinodo intende rimediare a
questa piaga e ammonisce paternamente tutti quelli, cui spetta, di non esser
troppo facili ad ammettere al matrimonio questo genere di individui vaganti. Ed
esorta anche le autorità secolari, perché li reprimano severamente.
Ai parroci poi
comanda di non assistere ai loro matrimoni, senza aver assunto prima diligenti
informazioni, e se, dopo aver riferito la cosa all’ordinario, non hanno prima
ottenuto la licenza di fare ciò.
Capitolo VIII
È grave peccato,
certamente, che uomini non sposati abbiano concubine. Ma che anche uomini
ammogliati vivano in questo stato di dannazione ed osino, qualche volta,
mantenerle e tenerle in casa con le mogli, ciò è gravissimo, ed è atteggiamento
di particolare disprezzo contro questo grande sacramento.
Perciò il santo
sinodo, volendo provvedere con opportuni rimedi ad un male così grande,
stabilisce che questi concubinari, sia liberi che ammogliati, di qualsiasi
stato, dignità e condizione essi siano, se, ammoniti di ciò dall’ordinario -
anche d’ufficio - per tre volte, non rimandano le concubine e non cessano la
vita in comune con esse, debbano esser colpiti dalla scomunica e che non
possano esser assolti fino a quando non obbediranno realmente all’ammonizione
fatta.
Se poi, incuranti
delle censure, rimanessero nel concubinato per un anno, l’ordinario proceda
severamente contro di essi, secondo la qualità del delitto.
Quanto a quelle
donne, - siano esse maritate o nubili - che vivono pubblicamente con gli
adulteri o concubinari, se esse, ammonite tre volte, non obbediranno, siano
gravemente punite dagli ordinari dei luoghi, d’ufficio, anche senza che
qualcuno lo richieda, a seconda della colpa, e siano cacciate dalla città o
dalla diocesi, se questo sembrerà opportuno agli stessi ordinari, chiamando in
aiuto, se necessario, il braccio secolare. Le altre pene stabilite contro gli
adulteri e i concubinari rimarranno in vigore.
Capitolo IX
Gli affetti terreni
e le passioni, spessissimo accecano tanto gli occhi della mente dei signori
temporali e delle autorità, da costringere con minacce e pene uomini e donne
della loro giurisdizione - specie se ricchi e se hanno la speranza di un grande
eredità - a contrarre il matrimonio contro loro volontà con quelli che gli
stessi signori e magistrati impongono loro.
E poiché è sommamente empio che sia violata la libertà del
matrimonio e che le ingiustizie nascano proprio da coloro, da cui si dovrebbe
attendere l’esatta osservanza delle leggi, il santo sinodo comanda a tutti - di
qualsiasi grado, dignità e condizione - sotto pena di scomunica ipso facto,
di non voler impedire in nessun modo, direttamente o indirettamente, ai loro
sudditi o a qualsiasi altro, di contrarre liberamente matrimonio.
Capitolo X
Dall’avvento del
Signore nostro Gesù Cristo fino al giorno dell’epifania, e dal mercoledì delle
ceneri all’ottava di Pasqua compresa, il santo sinodo dispone che tutti
osservino le antiche proibizioni delle nozze solenni. Negli altri tempi,
permette che esse possano celebrarsi solennemente; ma i vescovi faranno in modo
che esse siano celebrate con quella moderazione e dignità che il rito comporta:
il matrimonio, infatti, è cosa santa e dev’essere trattato santamente.
Decreto di riforma.
Lo stesso santo
sinodo, proseguendo la materia della riforma, dispone che nella presente
sessione si debba stabilire quanto segue.
Canone I
Se in ogni grado
della chiesa bisogna far in modo con provvida consapevolezza che nella casa del
Signore niente sia disordinato, né fuori posto, molto maggiormente bisogna far
in modo di non errare nella elezione di colui che viene costituito al di sopra
di ogni grado: infatti lo stato e l’ordine di tutta la famiglia del Signore
sarà diverso, se quello che si richiede nelle membra verrà a mancare nel capo
(385).
Quindi, benché
altrove (386) il santo sinodo abbia dato alcune utili prescrizioni riguardo a
coloro che devono esser promossi alle chiese cattedrali e superiori, crede,
tuttavia, che questo ufficio sia tale, che se si considerasse in proporzione
della sua grandezza, non sembrerebbe mai abbastanza tutelato. Il concilio
quindi stabilisce che non appena una chiesa si rende vacante, sia in pubblico
che in privato si rivolgano a Dio suppliche e preghiere. Preghiere e suppliche
siano indette anche dal capitolo per tutta la città e per tutta la diocesi,
perché il clero e il popolo possano impetrare da Dio un buon pastore.
Inoltre, pur non
innovando nulla, su questo argomento per il presente stato dei tempi, esorta ed
ammonisce tutti quelli che hanno in qualsiasi modo per concessione della santa
sede, o anche diversamente, titolo a intervenire nella promozione dei futuri
prelati perché si ricordino, prima di ogni altra cosa, che essi non possono
fare nulla di più utile per la gloria di Dio e la salvezza dei popoli, che
procurare che vengano promossi pastori buoni e adatti a governare la chiesa. Li
ammonisce anche che essi, divenendo partecipi dei peccati degli altri, peccano
gravemente, se non procureranno diligentemente che vengano scelti a governare
quelli che essi stimano più degni e più utili alla chiesa, mossi non da
preghiere, da umano affetto o dai suggerimenti di chi briga, ma dai loro
meriti: quelli nati da legittimo matrimonio e che presentano una vita, un’età,
una dottrina e tutte le altre qualità, che sono richiesti dai sacri canoni e
dai decreti di questo sinodo Tridentino.
E poiché
nell’assumere le informazioni - serie e utili - degli uomini onesti e dotti su
tutte queste qualità, non si può avere un modo dappertutto uniforme, data la
varietà delle nazioni, dei popoli e dei costumi, il santo concilio comanda che
nel sinodo provinciale - che il metropolita deve tenere - sia prescritto per
ogni luogo e provincia un proprio schema per l’esame, l’inchiesta o
l’istruttoria che si deve fare, da approvarsi dal santissimo pontefice romano,
secondo l’utilità dei luoghi. In tal modo quando, poi, questo esame o inchiesta
sulla persona da promuoversi è stata completata, sia redatta in atto pubblico e
con l’insieme delle testimonianze e la professione di fede da essa fatta, sia
senz’altro trasmessa al più presto al pontefice romano, affinché lo stesso
sommo pontefice, dopo aver preso completa visione di tutta la pratica e delle
persone, possa più utilmente provvedere per mezzo loro alle chiese - se saranno
trovati adatti - per l’utilità del gregge del Signore.
Inoltre, tutte le
ricerche, le informazioni, le testimonianze, le prove di qualsiasi natura, che
si sono potute raccogliere sulle qualità di colui che dev’essere promosso e
sullo stato della chiesa, da qualsiasi persona, anche nella curia romana,
vengano esaminate diligentemente da un cardinale che poi ne farà la relazione
in concistoro e da tre altri cardinali; la relazione sia confermata dalla firma
del cardinale relatore e dei tre cardinali. In essa ciascuno dei quattro
cardinali affermi separatamente, che, usata accurata diligenza, ha trovato le
persone, che devono essere promosse, fornite delle qualità richieste dal
diritto e da questo santo sinodo, e di avere la persuasione - a rischio
dell’eterna salute - che essi sono adatti ad esser messi a capo delle chiese.
Fatta poi la relazione in un primo concistoro, perché frattanto con più matura
riflessione si possa giungere ad una più profonda conoscenza della inchiesta,
si differisca il giudizio ad altro concistoro, a meno che al pontefice non
sembri opportuno fare diversamente.
Stabilisce, inoltre,
lo stesso concilio che tutte e singole le prescrizioni che sono state emanate,
altre volte, nello stesso sinodo, per quanto riguarda la vita, l’età, la
dottrina e le altre qualità dei vescovi che dovranno essere eletti, debbano
osservarsi anche nella creazione dei cardinali della santa chiesa romana, anche
se fossero solo diaconi, e che il pontefice romano, per quanto possibile,
eleggerà da tutte le nazioni della cristianità, a seconda che li troverà
adatti.
Da ultimo lo stesso
sinodo, scosso dai tanti gravissimi mali che travagliano la chiesa, non può non
ricordare che niente è più necessario alla chiesa di Dio che il pontefice
romano mostri quella sollecitudine che in forza del suo ufficio deve a tutta la
chiesa specialmente nello scegliere solo dei cardinali eccellenti e nel mettere
a capo delle singole chiese pastori ottimi e adatti. Ciò con tanta maggior
ragione, in quanto il signore nostro Gesù Cristo, gli chiederà conto del sangue
di quelle sue pecore che dovessero perire a causa del cattivo governo di
pastori negligenti e immemori del loro ufficio.
Canone II
Se i concili
provinciali in qualche posto sono stati trascurati, vengano ripresi per
regolare i costumi, correggere le colpe, comporre le controversie, e per le
altre cose permesse dai sacri canoni.
Perciò i metropoliti
stessi, - o se essi ne fossero legittimamente impediti, il coepiscopo più
anziano, - almeno entro un anno dalla fine del presente concilio, e, in
seguito, almeno ogni tre anni, non trascuri di riunire il sinodo della sua
provincia, dopo l’ottava della Pasqua del nostro signore Gesù Cristo, o in
altro tempo più comodo, secondo l’usanza della provincia. Ad esso devono
assolutamente partecipare tutti i vescovi e gli altri che per diritto o per
consuetudine sono obbligati ad intervenirvi, eccettuati quelli, soltanto, che
dovrebbero attraversare il mare con immediato pericolo.
Al di fuori di tale
occasione i vescovi comprovinciali non siano più costretti, contro la loro
volontà, a recarsi alla chiesa metropolitana col pretesto di qualsiasi
consuetudine. Similmente i vescovi che non dipendono da nessun arcivescovo, una
volta per sempre scelgano un metropolita vicino, al cui sinodo provinciale
siano tenuti a partecipare con gli altri, ed osservino e facciano osservare
quelle decisioni che vi fossero state prese. In tutte le altre cose, la loro
esenzione e i loro privilegi siano sani e salvi.
Si celebrino anche,
ogni anno, i sinodi diocesani; ad essi dovranno recarsi anche tutti quegli
esenti che, se non fossero esenti avrebbero l’obbligo di parteciparvi, e che
non sono soggetti ai capitoli generali. Quelli che hanno la cura di chiese
parrocchiali o di altre, anche annesse, chiunque essi siano, dovranno
partecipare al sinodo.
I metropoliti, i
vescovi e gli altri menzionati sopra che in questi problemi fossero negligenti,
incorreranno nelle pene sancite dai sacri canoni.
Canone III
I patriarchi, i
primati, i metropoliti e i vescovi non manchino di visitare personalmente la
propria diocesi; se ne fossero legittimamente impediti, lo facciano per mezzo
del loro vicario generale o di un visitatore. Se ogni anno non potessero
visitarla completamente per la sua estensione, ne visitino almeno la maggior
parte, in modo tale, però, che nel giro di due anni, o personalmente o per
mezzo dei loro visitatori, terminino di visitarla.
I metropoliti,
visitata completamente la propria diocesi, non visitino le chiese cattedrali e
le diocesi dei loro comprovinciali, se non per un motivo, conosciuto e
approvato nel concilio provinciale. Gli arcidiaconi, i decani e gli altri
inferiori, in quelle chiese in cui fino ad ora hanno usato fare legittimamente
la visita, in avvenire potranno farla solo personalmente, con un notaio e col
consenso del vescovo.
Anche i visitatori
che devono essere scelti dal capitolo, - dove il capitolo ha diritto di visita,
- devono prima essere approvati dal vescovo. Ma non perciò il vescovo, o, se
egli fosse impedito, il suo visitatore, non avranno il diritto di visitare le
stesse chiese per proprio conto. Anzi gli arcidiaconi e gli altri inferiori
saranno tenuti a presentargli entro un mese la relazione della visita fatta e a
mostrargli le deposizioni dei testi e tutti gli atti. Ciò, non ostante
qualsiasi consuetudine, anche immemorabile, qualsiasi esenzione e privilegio.
Scopo principale di
tutte queste visite sia quello di portare la sana e retta dottrina, dopo aver
fugato le eresie; di custodire i buoni costumi e correggere quelli corrotti; di
entusiasmare il popolo, con esortazioni e ammonizioni, per la religione, la
pace, la rettitudine; e di stabilire tutte quelle altre cose che, secondo il
luogo, il tempo, l’occasione, e la prudenza dei visitatori, possono portare un
frutto ai fedeli.
E perché queste cose
possano avere più facilmente esito felice, tutti quelli che abbiamo nominato ed
a cui spetta la visita, sono esortati a tenere verso tutti paterna carità e
zelo cristiano. Contenti, quindi, di un numero modesto di cavalli e di
servitori, cerchino di portare a termine la visita al più presto possibile e
tuttavia con la dovuta diligenza. E intanto facciano in modo di non esser di
peso e di aggravio a nessuno con spese inutili; e non prendano nulla, né essi,
né qualcuno dei loro, come diritto di visita, anche per visite a legati per usi
pii, - fuorché quello che è loro dovuto di diritto per lasciti pii, o per
qualsiasi altro titolo, né denaro, né regali di qualsiasi genere, anche se in
qualsiasi modo vengano offerti, non ostante qualsiasi consuetudine, anche
immemorabile.
Si eccettuano,
tuttavia, le spese per il vitto, che dovranno essere sostenute per loro e per
quelli che li accompagnano in modo frugale e moderato, e solo per le necessità
del tempo e non oltre. Si lascia tuttavia alla libera scelta di quelli che sono
visitati, di dare una somma di denaro secondo quanto erano soliti pagare,
ovvero di offrire il sostentamento accennato, salvo il diritto delle antiche
convenzioni stabilite con i monasteri ed altri luoghi pii e con le chiese non
parrocchiali, che deve rimanere intatto.
In quei luoghi e province
dove vi è la consuetudine che i visitatori non ricevano né il mantenimento, né
denaro, né alcun’altra cosa, ma che si faccia tutto gratuitamente, vi si
osservi questa consuetudine.
Che se per caso qualcuno (Dio non voglia!) in tutti i casi
suddetti osasse prendere qualche cosa di più, questi, oltre alla restituzione
del doppio entro un mese, sia colpito anche con altre pene, secondo la
costituzione del concilio generale di Lione Exigit (387) e con altre
ancora nel sinodo provinciale, a giudizio del sinodo, senza speranza di
perdono.
I patroni non
pretendano in nessun modo di ingerirsi nell’amministrazione dei sacramenti; né
si immischino nella visita agli ornamenti della chiesa o nei proventi dei beni
immobili o delle fabbriche, se non nella misura che compete ad essi in forza
della costituzione e della fondazione; attendano, invece, a queste cose i
vescovi stessi. E procurino che i redditi delle fabbriche siano spesi in usi
necessari ed utili per la chiesa, come ad essi sembrerà più conveniente.
Canone IV
Il santo sinodo,
desiderando che l’ufficio della predicazione, che è il principale dovere dei
vescovi, venga esercitato quanto più frequentemente è possibile per la salvezza
dei fedeli, adattando meglio alle necessità dei tempi presenti i canoni emanati
un tempo su questo argomento sotto Paolo III (388), di felice memoria, comanda
che essi espongano le sacre scritture e la legge divina: nella propria chiesa,
personalmente, o, se ne fossero legittimamente impediti, mediante persone
assunte per la predicazione, nelle altre chiese di città o della diocesi per
mezzo dei parroci, o, qualora questi ne fossero impediti, per mezzo di altri da
designarsi dal vescovo, a spese di quelli che sono tenuti o sono soliti
accollarsi queste spese, almeno tutte le domeniche e nelle feste solenni,
durante la quaresima e l’avvento del Signore, ogni giorno, o almeno tre volte
la settimana, se lo credono opportuno, ed inoltre ogni volta che ciò possa
esser stimato utile.
Il vescovo ammonisca
diligentemente il popolo che ognuno è tenuto a recarsi nella propria
parrocchia, se può farlo facilmente, per ascoltare la parola di Dio. Nessun
secolare o regolare osi predicare - anche nelle chiese del suo ordine - qualora
il vescovo fosse contrario. Gli stessi vescovi avranno anche cura che almeno
nei giorni di domenica e negli altri festivi in ogni parrocchia i bambini siano
diligentemente istruiti da chi ne ha il dovere, nei rudimenti della fede e in
ciò che riguarda l’obbedienza a Dio e ai genitori. Se sarà necessario li
costringeranno anche con le censure ecclesiastiche. Tutto ciò, non ostante i
privilegi e le consuetudini. Nelle altre cose, conservino la loro forza le
disposizioni che sono state emanate sotto lo stesso Paolo III sul dovere della
predicazione.
Canone V
Le cause criminali
più gravi contro i vescovi, - anche di eresia (Dio non voglia!) -, che
importino la deposizione o la privazione, siano trattate e portate a
conclusione solo dal romano pontefice. Se poi si trattasse di una causa che
necessariamente debba essere istruita fuori della cuna romana, non sia affidata
a nessuno, fuorché a metropoliti o a vescovi, scelti dal papa.
Questo sia un mandato speciale e sia firmato dallo stesso
sommo pontefice. Esso non conferisca mai un potere più ampio di quello di
ricostruire il solo fatto, e di istruire il processo, che manderà subito al
romano pontefice, riservando a lui solo la sentenza definitiva. Quanto al
resto, si osservino da tutti le norme stabilite un tempo sotto Giulio III
(389), di felice memoria, su questo argomento, e la costituzione emanata sotto
Innocenzo III, nel concilio generale: Qualiter et quando (390), che il
santo sinodo rinnova. Le cause criminali minori dei vescovi, invece, siano
trattate e concluse solo nel concilio provinciale o da persone scelte dal
concilio provinciale.
Canone VI
In tutti i casi di
irregolarità e di sospensione che hanno origine da delitto occulto - eccettuato
quello che deriva da omicidio volontario e gli altri portati dinanzi al foro
contenzioso - sia permesso ai vescovi dispensare; così pure sia lecito ad essi
assolvere gratuitamente nel foro della coscienza qualsiasi colpevole, a loro
soggetto, personalmente, nella propria diocesi, o per mezzo del vicario, da
designarsi a ciò con speciale mandato, in qualsiasi caso occulto, anche in quelli
riservati alla santa sede, imposta, naturalmente, una salutare penitenza. La
stessa facoltà sia loro concessa, ma non ai loro vicari, nel delitto di eresia,
nello stesso foro della coscienza.
Canone VII
Perché il popolo
fedele riceva i sacramenti con maggiore riverenza e devozione dell’anima, il
santo sinodo comanda a tutti i vescovi che non solo quando questi sacramenti
devono essere amministrati da loro, personalmente, spieghino, prima, la loro
efficacia e la loro utilità, secondo l’intelligenza di chi li riceve, ma
facciano in modo che la stessa cosa si faccia piamente e prudentemente dai
singoli parroci, anche in lingua volgare, se necessario e se si può fare senza
incomodo.
Ciò venga fatto
secondo la forma che prescriverà il sinodo nella catechesi dei singoli
sacramenti, che i vescovi avranno cura di far tradurre in lingua volgare e di
far esporre al popolo da tutti i parroci. Durante la santa messa, inoltre, o
nella celebrazione delle sacre funzioni, spieghino in volgare nelle singole
feste o solennità, la parola di Dio e le esortazioni alla salvezza e si
sforzino di inciderla nel cuore di tutti (lasciate da parte le questioni
inutili), e di istruirli nella legge del Signore.
Canone VIII
L’apostolo ammonisce
che quelli che mancano pubblicamente, devono essere pubblicamente corretti
(391). Perciò, quando qualcuno commette un delitto pubblicamente e alla
presenza di molti, per cui non si può dubitare che altri siano stati offesi e
scossi dallo scandalo, bisogna imporre pubblicamente a costui una penitenza
proporzionata, secondo la gravità della colpa, sicché con la testimonianza
della sua punizione riporti sulla retta via quelli che con il suo esempio aveva
spinto ad agire perversamente. Il vescovo, tuttavia, potrà commutare questo
genere di penitenza pubblica in altro, occulto, quando questo gli sembrasse più
adatto.
In tutte le chiese
cattedrali, inoltre, - dove ciò si può fare senza difficoltà - sia istituito
dal vescovo un penitenziere unendo a tale funzione una prebenda di prossima
vacanza. Questi sia maestro, dottore, licenziato in teologia o in diritto
canonico, abbia quarant’anni; e ad ogni modo, sia il più idoneo che si possa
trovare, considerata la qualità del luogo. Quando egli ascolterà, in chiesa, le
confessioni, sia considerato presente al coro.
Canone IX
Le norme che un
tempo sono state emanate sulla diligenza che i vescovi devono usare nella
visita dei benefici, anche esenti, sotto Paolo III, di felice memoria (392), e,
recentemente, sotto il beatissimo signore nostro Pio IV (393), in questo stesso
concilio, siano osservate anche per quanto riguarda le chiese secolari, che si
dicono non essere in nessuna diocesi. Esse, quindi, saranno visitate dal
vescovo, la cui chiesa cattedrale è la più vicina (se ciò risulta), altrimenti
da colui, che una volta per sempre sia stato eletto nel concilio provinciale
dal prelato di quel luogo, come delegato della sede apostolica. Non ostante
qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabile.
Canone X
Perché i vescovi
possano mantenere più facilmente nella sottomissione e nell’obbedienza il
popolo che essi governano, in tutto ciò che riguarda la visita e la correzione
dei costumi dei loro sudditi, abbiano il diritto e il potere - anche come
delegati della sede apostolica - di comandare, regolare, punire ed eseguire,
conforme alle norme dei sacri canoni, quelle cose che, secondo la loro
prudenza, sembreranno loro necessarie all’emendazione e all’utilità dei loro
sudditi.
In quei problemi,
inoltre, che riguardano la visita o la correzione dei costumi (394), né
l’esenzione, né proibizione alcuna, né appello o querela, anche se interposta
presso la sede apostolica, potranno impedire o sospendere in alcun modo
l’esecuzione di quanto è stato da loro comandato, stabilito, giudicato.
Canone XI
Poiché si deve costatare che i privilegi e le esenzioni, che
per vari motivi vengono concessi a molti, producono oggi una certa confusione
nella giurisdizione dei vescovi, e danno agli esenti occasione di una vita
rilassata, il santo sinodo dispone che, se qualche volta si crederà opportuno
per motivi giusti, gravi, e in qualche modo necessari, insignire qualcuno dei
titoli d’onore del protonotariato, dell’accolitato, di conte palatino, di
cappellano del re, e di altri titoli simili, sia nella curia romana che fuori
di essa; e così pure oblati o come addetti a qualche monastero o col nome di
inservienti delle milizie o dei monasteri, degli ospedali, dei collegi, o con
qualsiasi altro titolo, si deve ritenere che con questi privilegi in nulla si
detrae agli ordinari. Sicché quelli cui sono stati già concessi o verranno
concessi in futuro tali privilegi, saranno pienamente soggetti in ogni cosa
agli stessi ordinari, come delegati delle sede apostolica, e per quanto
riguarda i cappellani regi, secondo la costituzione di Innocenzo III Cum
capella (395). Saranno eccettuati coloro che attualmente servono nei luoghi
predetti o prestano servizio nelle stesse milizie e risiedono nei loro recinti
e case, e vivono sotto la loro obbedienza, e anche quelli che legittimamente e
secondo la regola delle stesse milizie abbiano fatto la professione che, però,
deve constare all’ordinario.
Tutto ciò, non
ostante qualsiasi privilegio, anche dell’ordine di S. Giovanni di Gerusalemme e
di altre milizie.
Quanto ai privilegi
che sogliono competere a quelli che risiedono nella curia romana in forza della
costituzione di Eugenio (396) o della loro appartenenza alla casa di cardinali,
essi non riguardano quelli che hanno dei benefici ecclesiastici; a motivo di
questi benefici costoro restino soggetti alla giurisdizione degli ordinari. Non
ostante qualsiasi proibizione.
Canone XII
Poiché le dignità,
nelle chiese, specie cattedrali, sono state istituite per conservare ed
accrescere la disciplina ecclesiastica e perché quelli che le hanno si
distinguessero nella pietà, fossero di esempio agli altri e aiutassero i
vescovi con l’adempimento del loro dovere, giustamente quelli che sono chiamati
a ricoprirle, devono essere tali da rispondere al loro ufficio.
Nessuno, quindi, in avvenire, venga promosso a qualsiasi
dignità, cui sia annessa la cura delle anime, se non ha raggiunto almeno il
venticinquesimo anno di età, e, vissuto già nell’ordine clericale, non sia
ragguardevole per la dottrina - necessaria per eseguire il proprio ufficio - e
per la integrità dei costumi, secondo la costituzione di Alessandro III,
promulgata nel concilio Lateranense: Cum in cunctis (397).
Anche gli
arcidiaconi, che sono detti occhi dei vescovi, siano, in tutte le chiese, dove
è possibile, maestri in teologia, dottori e licenziati in diritto canonico.
Alle altre dignità o
personati, cui non è annessa la cura delle anime, siano chiamati quei chierici
che, idonei sotto ogni altro aspetto, non abbiano meno di ventidue anni.
Quelli, inoltre, che
sono provvisti di qualsiasi beneficio che comporti la cura delle anime, sono
tenuti, almeno entro i due mesi dalla presa di possesso, a fare nelle mani del
vescovo, o, se questi ne fosse impedito, dinanzi al suo vicario generale o ad
un suo officiale, la pubblica professione della loro retta fede. Promettano
anche e giurino di rimanere nell’obbedienza della chiesa romana.
Quelli, invece, che
sono stati provvisti di canonicati e dignità in chiese cattedrali, sono tenuti
a far ciò non solo dinanzi al vescovo o ad un suo rappresentante, ma anche in
capitolo.
Nessuno, inoltre,
d’ora innanzi, sia ricevuto ad una dignità, ad un canonicato, ad una porzione,
se non sia già costituito in quell’ordine sacro che è richiesto da tale
dignità, prebenda o porzione, o sia in tale età, che entro il tempo stabilito
dal diritto e da questo santo sinodo (398), possa ricevere l’ordine stesso.
In tutte le chiese
cattedrali, poi, tutti i canonicati e porzioni abbiano annesso l’ordine del
presbiterato, del diaconato o del suddiaconato. Col consiglio del capitolo,
poi, il vescovo designi e stabilisca, come gli sembrerà meglio, a quale ufficio
ciascun ordine debba essere annesso; e lo faccia in tal modo, che almeno la
metà siano presbiteri, gli altri diaconi o suddiaconi. Dove vi fosse la
consuetudine più lodevole che la maggior parte o tutti siano presbiteri, sia
osservata senz’altro.
Questo santo sinodo
esorta anche a far sì, che in quelle province dove si può facilmente
realizzare, tutte le dignità e almeno metà dei canonicati, nelle chiese
cattedrali e nelle collegiate insigni, siano conferiti solo a maestri o
dottori, o anche ai licenziati in teologia o diritto canonico.
A quelli, inoltre,
che nelle stesse cattedrali o collegiate hanno dignità, canonicati, prebende o
porzioni non sia lecito essere assenti ogni anno per più di tre mesi, in forza
di qualsiasi statuto, o consuetudine, salve le costituzioni di quelle chiese
che richiedono un tempo più lungo nel servizio. In caso contrario ciascuno il
primo anno sia privato della metà dei frutti che ha percepito in ragione della
prebenda e della residenza. Se poi mostrerà la stessa negligenza, sia privato
di tutti i frutti che in quell’anno ha percepito. Crescendo la loro contumacia,
si proceda contro di essi conforme alle prescrizioni dei sacri canoni.
Per quanto riguarda le distribuzioni, le ricevano solo
quelli che sono stati presenti alle ore stabilite. Gli altri, senza possibilità
di intesa e di remissione, ne siano privati, secondo il decreto di Bonifacio
VIII: Consuetudinem (399), che il santo sinodo intende ripristinare.
Tutto ciò, non ostante qualsiasi statuto o consuetudine.
Tutti poi siano
obbligati a compiere i divini uffici da loro stessi, e non per mezzo di altri,
ad assistere e a servire il vescovo quando celebra e compie altri uffici
pontificali; e così pure a lodare con riverenza, chiaramente e con devozione in
coro, istituito per salmeggiare il nome di Dio con inni e canti.
Indossino sempre,
inoltre, un vestito decente, sia nella chiesa che fuori. Si astengano da cacce
illecite, da uccellagioni, da danze; si tengano lontani dalle osterie e dai
giuochi e mostrino quella integrità di costumi, per cui a ragione possano esser
chiamati il senato della chiesa.
Quanto alle altre
cose necessarie, che riguardano la dovuta disciplina nei divini uffici, il
giusto modo di cantare e di salmodiare, il modo prescritto di andare e rimanere
in coro, ed inoltre tutto ciò che riguarda i ministri della chiesa e altre cose
simili, penserà il sinodo provinciale a prescrivere a ciascuno la propria
forma, a seconda dell’utilità di ciascuna provincia e secondo i suoi usi. Nel
frattempo il vescovo con non meno di due canonici, di cui uno scelto da lui,
l’altro dal capitolo, potrà provvedere in quelle cose, che sembreranno
necessarie.
Canone XIII
Poiché molte chiese
cattedrali hanno redditi tanto tenui e sono così piccole, da non essere
assolutamente adeguate alla dignità vescovile, né alla necessità delle chiese,
il concilio provinciale, dopo aver chiamato quelli cui la cosa interessa,
esamini e consideri diligentemente quali siano quelle che, per la loro piccolezza
e inconsistenza sia necessario unire alle diocesi vicine o far in modo che
aumentino i loro proventi. Redatto su ciò un documento, lo si mandi al sommo
pontefice romano; basandosi su di esso, egli, secondo la sua prudenza e secondo
quanto gli sembrerà doversi fare, unirà le più piccole fra di loro o ne
aumenterà i frutti con qualche aggiunta.
Intanto, fino a che
queste pratiche non abbiano il loro effetto, il sommo pontefice romano potrà
provvedere a quei vescovi che hanno bisogno di sovvenzioni per la povertà della
loro diocesi con qualche beneficio, purché non abbia cura d’anime, e non si
tratti di dignità, di canonicati, di prebende, di monasteri, in cui sia viva
l’osservanza della regola, o che siano soggetti ai capitoli generali, e a
determinati visitatori.
Anche nelle chiese
parrocchiali, i cui frutti siano ugualmente tanto scarsi da non potersi
soddisfare agli oneri che hanno, il vescovo farà in modo che - se quanto
abbiamo detto non si potrà ottenere con l’unione dei benefici (non tuttavia dei
regolari), - con l’assegnazione delle primizie e delle decime, con i contributi
delle parrocchie e con le raccolte di denaro, o in altro modo, che a lui sembri
più adatto, si ricavi tanto che possa esser sufficiente alle necessità del
rettore e della parrocchia.
In ogni unione, poi,
sia quelle sopra accennate, sia quelle che si dovessero fare per altri motivi,
le chiese parrocchiali non si uniscano mai con un monastero, con una abbazia,
con la dignità, o prebenda di una chiesa cattedrale, o collegiata, con altri
benefici semplici, con ospedali, con milizie. E quelle che fossero unite, siano
riesaminate dagli ordinari, secondo il decreto un tempo emanato nello stesso
sinodo, sotto Paolo III, di felice memoria (400). Decreto che si osserverà
ugualmente anche per le unioni fatte da quel tempo in poi. Ciò, nonostante
qualsiasi termine usato che deve ritenersi come qui sufficientemente espresso.
Oltre a ciò, in
avvenire, tutte quelle chiese cattedrali, il cui reddito non supera la somma di
mille ducati e le chiese parrocchiali, il cui reddito, secondo il loro vero
valore annuo, non supera i cento, non siano aggravate da alcuna pensione o
riserva di frutti.
Anche in quelle
città e luoghi, dove le chiese parrocchiali non hanno confini ben definiti, e i
loro rettori non hanno un popolo da reggere, ma amministrano solo
indistintamente i sacramenti a chi li chiede, il santo sinodo comanda ai
vescovi che, per potere ottenere con una maggiore certezza la salute delle
anime loro affidate, diviso il popolo in parrocchie vere e proprie, assegnino a
ciascuna un proprio parroco permanente, che possa conoscerle, e da cui soltanto
ricevano lecitamente i sacramenti, o provvedano in altro modo migliore, secondo
le esigenze del luogo. E cerchino di fare al più presto la stessa cosa nelle
altre città e luoghi dove non vi sono affatto chiese parrocchiali. Ciò, non
ostante qualsiasi privilegio e consuetudine, anche immemorabili.
Canone XIV
In molte chiese, sia
cattedrali che collegiate e parrocchiali, in forza delle loro costituzioni o
per una riprovevole consuetudine, è corrente che nella elezione, presentazione,
nomina, istituzione, conferma, conferimento, o altra provvista o ammissione al
possesso di una chiesa cattedrale o beneficio, di canonicati e di prebende, o
ad una parte dei proventi, o alle distribuzioni quotidiane, si frappongano
certe condizioni o deduzioni dai frutti, certi pagamenti, promesse e compensi
illeciti, o anche quelli che in alcune chiese sono detti "lucri di
turno".
Il santo sinodo
detesta queste cose e comanda ai vescovi che proibiscano quello che, in queste
faccende, non viene convertito in uso pio, quegli ingressi che destano sospetto
di simonia, o presentano il carattere di volgare avarizia. Prendano conoscenza,
inoltre, diligentemente, delle loro costituzioni e consuetudini su questi
argomenti, e con eccezione soltanto di quelle che essi approvano come lodevoli,
respingano ed aboliscano tutte le altre, come indegne e scandalose.
Il santo sinodo
stabilisce che quelli che in qualsiasi modo agissero contro le prescrizioni di
questo decreto, siano soggetti alle pene emanate contro i simoniaci, a quelle
dei sacri canoni ed alle varie costituzioni dei sommi pontefici, che rinnova.
Tutto questo, non ostante qualsiasi statuto, costituzione e consuetudine, anche
immemorabile, anche se fossero state confermate dall’autorità apostolica. Il
vescovo, come delegato della sede apostolica, potrà indagare sulla loro
reticenza, falsità e difetto di intenzione.
Canone XV
In quelle chiese
cattedrali e collegiate insigni, dove le prebende sono molte, e, quindi, poco
consistenti pur con le distribuzioni quotidiane, così da non esser sufficienti
per la decorosa condizione dei canonici, considerata la qualità del luogo e
delle persone, i vescovi, col consenso del capitolo, potranno unire ad esse
alcuni benefici semplici (mai dei regolari), o, se in questo modo non si
potesse provvedere, ne sopprimano qualcuna, col consenso dei patroni - se sono
di diritto di patronato dei laici, - applicandone i frutti e i proventi alle
distribuzioni quotidiane delle altre prebende e le riducano di numero, facendo
in modo, però, che ne rimangano tante, da poter esser sufficienti comodamente
alla celebrazione del culto divino e alla dignità della chiesa. Ciò non ostante
qualsiasi costituzione, privilegio, riserva, generale o speciale. Né le
predette unioni o soppressioni potranno esser annullate o impedite da qualsiasi
provvista, anche in forza di una rinunzia o da qualsiasi altra deroga o
sospensione.
Canone XVI
Durante la sede
vacante il capitolo - se ha l’ufficio di percepire i frutti - stabilisca uno o
più economi, fidati e diligenti, che si occupino delle cose ecclesiastiche e
dei proventi, e rendano ragione, a suo tempo, a colui cui spetta. Così pure sia
tenuto ad eleggere un officiale o vicario entro gli otto giorni dalla morte del
vescovo e a confermarlo, se già vi fosse; sia dottore o almeno licenziato in
diritto canonico, o, in ogni caso e per quanto è possibile, adatto. Se si
facesse diversamente, questa designazione sia devoluta al metropolita. Se poi
la chiesa fosse proprio quella metropolitana, o se fosse esente, e il capitolo
(come è stato accennato) fosse negligente, allora il più anziano dei vescovi
suffraganei, se si tratta della chiesa metropolitana, e il più vicino, se si
tratta di una chiesa esente, hanno il potere di costituire un economo e un
vicano adatti.
Il vescovo promosso
a quella chiesa vacante, poi, tra le altre cose che gli spettano, esiga che gli
si renda ragione dallo stesso economo, dal vicario e da qualsiasi altro
officiale ed amministratore, costituito dal capitolo o da altri in suo luogo
durante la sede vacante, anche se fossero membri dello stesso capitolo, ragione
dei loro uffici, della giurisdizione, dell’amministrazione e di qualsiasi altro
loro incarico. E potrà anche punire quelli che nel loro ufficio o
amministrazione avessero mancato, anche se questi officiali, reso già il loro
rendiconto, avessero ottenuto dal capitolo o da quelli che da esso fossero
stati deputati, l’assoluzione o la liberazione. Il capitolo sarà anche tenuto a
render conto allo stesso vescovo degli scritti che appartengono alla chiesa, se
ne fossero giunti al capitolo.
Canone XVII
La disciplina
ecclesiastica resta sconvolta, quando uno dei chierici occupa più uffici.
Perciò sapientemente fu disposto dai sacri canoni che nessuno dovesse essere
incardinato in due chiese (401). Ma molti, mossi da un riprovevole desiderio di
guadagno, ingannando se stessi (non Dio!) non si vergognano di eludere con
varie arti quelle prescrizioni che saggiamente sono state emanate e di tenere
più benefici insieme.
Per questo il santo
sinodo, desiderando tornare alla dovuta disciplina nel governo delle chiese,
con il presente decreto - che dovrà essere osservato da qualsiasi persona, di
qualsiasi titolo, anche se fosse insignita dell’onore del cardinalato, -
stabilisce che in futuro possa essere conferito a ciascuno un solo beneficio
ecclesiastico. Se questo non fosse sufficiente all’onesto sostentamento di
colui cui viene assegnato, si potrà conferirgliene un altro semplice, purché
l’uno e l’altro non esigano la residenza personale.
Queste norme
dovranno riguardare non solo le chiese cattedrali, ma anche tutti gli altri
benefici, sia secolari che regolari, anche se fossero dati solo in commenda, di
qualsiasi titolo e qualità essi siano.
Quelli poi che presentemente hanno più chiese parrocchiali,
o ne hanno una cattedrale e l’altra parrocchiale, nonostante qualsiasi dispensa
e qualsiasi unione a vita, siano senz’altro costretti a lasciare, entro lo
spazio di sei mesi, le altre chiese parrocchiali, tenendosi soltanto la chiesa
parrocchiale, o quella cattedrale. In caso diverso, tanto le chiese
parrocchiali, quanto tutti gli altri benefici, che hanno ipso iure
dovranno considerarsi vacanti, e, come vacanti, siano conferiti liberamente ad
altri idonei; e quelli che prima avevano tali benefici, dopo quel tempo non
potranno goderne i frutti con tranquillità di coscienza. Desidera, tuttavia, il
santo sinodo, che si provveda alle necessita di quelli che rinunziano, in modo
adatto, come sembrerà meglio al sommo pontefice.
Canone XVIII
Giova assai alla
salute delle anime essere governate da parroci degni e adatti. E perché ciò
possa esser fatto più diligentemente e più rettamente il santo sinodo
stabilisce, che quando per morte o per rinunzia una chiesa parrocchiale si
rende vacante - anche se la cura spetta alla chiesa o al vescovo ed è
amministrata da una o più persone; anche nelle chiese dette patrimoniali o
recettive, in cui il vescovo è solito dare la cura delle anime ad uno o più (persone
tutte che sono tenute a sostenere l’esame di cui sotto) - anche se la stessa
chiesa parrocchiale fosse riservata, sia in modo generale che speciale, anche
in forza di qualche indulto o privilegio in favore di cardinali della santa
chiesa romana, di abati, o di capitoli, il vescovo, non appena ha avuta notizia
della vacanza, debba nominare, se necessario, un vicario adatto, con
l’assegnazione di un’adeguata parte di frutti, a suo giudizio, il quale
sostenga gli oneri della stessa chiesa, fino a che non sia stato nominato il
rettore.
Inoltre, il vescovo
e chi ha diritto di patronato, entro dieci giorni od altro tempo da
determinarsi dal vescovo, nomini dinanzi agli esaminatori alcuni chierici
adatti a reggere la chiesa. Sia permesso, tuttavia, anche ad altri, se
conoscessero qualche altro idoneo a questo ufficio, di fare i loro nomi, perché
si possa fare poi una diligente ricerca sull’età, sui costumi, e sulla capacità
di ciascuno. Se poi al vescovo o al sinodo provinciale sembrasse meglio, -
conforme all’uso della regione, - i candidati all’esame siano convocati con
pubblico editto. Passato il tempo stabilito, tutti quelli che sono stati
iscritti, siano esaminati dal vescovo o, se questi fosse impedito, dal vicano
generale e dagli altri esaminatori - che non devono essere meno di tre. Se i
voti di questi fossero pari o singolarmente diversi, il vescovo, o il vicario
potrà aggiungere il suo voto a colui, cui sembrerà più opportuno darlo.
Gli esaminatori
vengano presentati ogni anno nel sinodo diocesano dal vescovo o dal suo vicario
almeno in numero di sei e siano di gradimento del sinodo e tali da ottenere la
sua approvazione. Quando si rende vacante una chiesa, il vescovo ne scelga tre,
che assieme a lui facciano l’esame; verificandosi un’altra vacanza, scelga gli
stessi o altri tre fra i sei, quelli, cioè, che crederà meglio. Questi
esaminatori siano maestri, dottori o licenziati in teologia o in diritto
canonico; o anche altri chierici - o regolari -, anche dei mendicanti o
secolari, a ciò particolarmente adatti. Giurino tutti sui santi vangeli di Dio,
che essi, messa da parte qualsiasi umana considerazione, eseguiranno fedelmente
il loro ufficio e si guardino bene dall’accettare, né prima né dopo, in
occasione di questo esame, qualsiasi cosa. In caso contrario sia essi che gli
altri che danno, incorrano nel reato di simonia, da cui non potranno essere
assolti se non con la rinunzia ai benefici che in qualsiasi maniera, anche
prima, avevano; e siano resi inabili per l’avvenire anche ad altri. Di queste cose,
inoltre, siano obbligati a rendere conto non solo dinanzi a Dio, ma, se fosse
il caso, anche nel sinodo provinciale, da cui, se si venisse a riscontrare che
hanno in qualche modo agito contro il loro dovere, potranno essere puniti
gravemente, a suo arbitrio.
Fatto, quindi,
l’esame, siano pubblicati i nomi di quelli giudicati idonei, per età, costumi,
dottrina, prudenza e per quelle altre qualità che li rendono capaci di
governare la chiesa vacante; tra questi il vescovo scelga quello che giudicherà
più adatto degli altri. E a lui - non ad altri - sia fatto il conferimento
della chiesa da quegli cui spetta conferirla. Se poi questa fosse di diritto di
patronato ecclesiastico e quindi la nomina appartenesse al vescovo, e non ad
altri, colui che il patrono giudicherà migliore tra i candidati approvati dagli
esaminatori, dovrà presentarsi al vescovo per essere da lui nominato.
Quando poi la nomina
dovesse farsi da altri che non sia il vescovo, allora il solo vescovo scelga
tra i degni il più degno, e il patrono lo presenti a colui, cui spetta la
nomina. Se si trattasse di diritto di patronato di laici, quegli che sarà
presentato dal patrono dovrà essere esaminato dagli stessi deputati di cui
sopra, e non sarà ammesso, se non dopo che sarà stato trovato idoneo.
In tutti i casi
sopraddetti, però, non si provveda alla chiesa per mezzo di nessun altro, se
non attraverso uno dei predetti esaminati e approvati dagli esaminatori,
secondo la norma data. Nessuna devoluzione, o appello - anche se interposto
alla sede apostolica, ai suoi legati, vicelegati, nunzi, vescovi, metropoliti,
primati o patriarchi - potrà impedire o sospendere l’esecuzione della relazione
di questi esaminatori.
In caso diverso, il
vicano che il vescovo avesse già assegnato temporaneamente, di propria
iniziativa, alla chiesa vacante o che dovesse assegnare in seguito, non sia
rimosso dalla cura e dal governo di quella chiesa, fino a che lui o altri, che
fosse stato approvato o scelto, come già detto, non sia stato provvisto. Tutte
le provviste o nomine fatte in maniera diversa da quanto prescrive la forma
riferita sopra, devono essere considerate illegittime.
Non impediranno
questo decreto le esenzioni, gli indulti, i privilegi, le prevenzioni, le nuove
provisioni, gli indulti concessi a qualsiasi università, anche dietro
versamento di una certa somma e qualsivoglia altro impedimento.
Se, tuttavia, i
redditi di questa parrocchia fossero così tenui da non comportare il peso di
tutto questo esame; o non vi sia alcuno che cerchi di sottoporsi a questo esame;
o si temesse di suscitare facilmente risse e tumulti di una certa gravità, per
le note fazioni o divisioni che vi sono in alcuni luoghi, l’ordinario - se in
coscienza e col consiglio dei deputati crederà opportuno agire in tal modo, -
omesso questo procedimento, potrà provvedere con un altro esame privato,
osservando tuttavia le prescrizioni già esposte. Se poi il sinodo provinciale
crederà di dover aggiungere od omettere qualche cosa circa la forma dell’esame,
potrà farlo.
Canone XIX
Il santo sinodo stabilisce
che i mandati di provvista, e quelle grazie che si chiamano ‘aspettative’ non
si debbano concedere più a nessuno, neppure ai collegi, alle università ai
senati, e ad altre singole persone, neppure a titolo di indulto, o dietro
versamento di una certa somma, o con qualsiasi altro pretesto; e che a nessuno
sia permesso far uso di quelle già concesse. Non si concedano a nessuno,
inoltre, né le riserve mentali, né qualsiasi altra grazia che riguardi benefici
che si renderanno vacanti, né indulti che riguardino chiese di altri o
monasteri, neppure ai cardinali della santa chiesa romana. Le grazie e gli
indulti che fossero stati concessi finora, siano considerati abrogati.
Canone XX
Tutte le cause che
in qualsiasi modo appartengono al foro ecclesiastico - anche se riguardano i
benefici - in prima istanza si svolgano solo dinanzi agli ordinari locali e
siano assolutamente condotte a termine almeno entro un biennio dalla data
dell’inizio della lite. Dopo questo tempo sia lecito alle parti, o ad una di
esse, adire i giudici superiori, naturalmente competenti. Questi assumano la
causa nello stato in cui si trova e cerchino di condurla a termine al più
presto. Prima non siano affidate o avocate ad altri; né vengano accolti da
nessun superiore gli appelli interposti; la loro assegnazione o inibizione non
sia fatta, se non dopo la sentenza definitiva o avente valore definitivo, il
cui onere non possa essere riparato con l’appello contro la sentenza
definitiva.
Si eccettuano,
tuttavia, quelle cause che, secondo le prescrizioni canoniche, devono essere
trattate presso la sede apostolica, o quelle che per un motivo urgente e
ragionevole il sommo pontefice romano credesse di dovere affidare o avocare
alla Segnatura con uno speciale rescritto da firmarsi di propria mano da sua
santità.
Le cause
matrimoniali e criminali, inoltre, non siano lasciate al giudizio del decano,
dell’arcidiacono o di altri inferiori, anche se sono in visita, ma solo
all’esame e alla giurisdizione del vescovo, anche se tra il vescovo e il decano
o l’arcidiacono o altri inferiori vi sia in pendenza qualche lite, in qualsiasi
istanza, sulla trattazione di queste cause. E se una parte può davvero provare
dinanzi a lui la sua povertà, non sia costretta a condurre avanti la causa
fuori della provincia, né in seconda, né in terza istanza nella stessa causa
matrimoniale, a meno che l’altra parte non sia disposta a provvedere gli
alimenti e a sostenere le spese della lite.
I legati, inoltre,
anche a latere, i nunzi, i governatori ecclesiastici, o altri, qualunque
facoltà essi abbiano, non solo non oseranno impedire i vescovi in tali cause, o
privarli in qualche modo della loro giurisdizione, o disturbarli, ma non
dovranno neppure procedere contro i chierici od altre persone ecclesiastiche,
se non dopo che il vescovo richiestone si sia mostrato negligente.
Diversamente, i loro processi o le loro ordinanze non abbiano alcun valore e
siano tenuti alla riparazione del danno che avessero procurato alle parti.
Inoltre, se
qualcuno, nei casi permessi dal diritto, interpone appello o si lagna di
qualche imposizione o, trascorso il biennio di cui sopra, ricorre ad altro
giudice, sia tenuto a trasferire, a sue spese, presso il giudice di appello
tutti gli atti compiuti presso il vescovo, non senza averlo prima avvertito che
qualora volesse dire qualche cosa sulla trattazione della causa, può
significarlo al giudice di appello. Nel caso poi che si presentasse colui
contro il quale si è fatto appello, sia costretto anche lui a pagare la sua
parte delle spese degli atti che sono stati trasferiti, se vorrà servirsene, a
meno che l’uso del luogo non sia diverso, e cioè che l’intera spesa sia a
carico di chi si appella. Il notaio sia obbligato, dietro il dovuto compenso, a
consegnare a chi appella copia degli atti quanto prima, e almeno entro un mese.
Se egli differisse con frode la consegna sia sospeso dall’esercizio del suo
ufficio ad arbitrio dell’ordinario e sia costretto ad una multa doppia di
quanto importi la lite, da dividersi fra colui che si è appellato e i poveri del
luogo.
Quanto al giudice,
poi, se anch’egli fosse stato consapevole di questo impedimento, vi avesse
partecipato o si fosse opposto in altro modo a che gli atti fossero
integralmente consegnati a chi si appella entro i termini sia tenuto alla
stessa doppia pena, come detto sopra. Ciò non ostante i privilegi, gli indulti,
gli accordi che obbligano solo quelli che li hanno stipulati, e qualsiasi altra
consuetudine.
Canone XXI
Il santo sinodo,
desiderando che in futuro dai decreti da esso emanati non sorga alcun motivo di
dubbio, spiegando le parole: "Quegli argomenti che su proposta dei legati
e presidenti, sembreranno adatti e idonei allo stesso sinodo a lenire le
calamità di questi tempi, a sedare le controversie religiose, a reprimere le
false lingue, a correggere gli abusi dei costumi corrotti, a ricondurre nella
chiesa una pace vera e cristiana", contenute nel decreto pubblicato nella
prima sessione (402), sotto il beatissimo signore nostro Pio IV, dichiara non
essere stata sua intenzione che in forza di queste parole si cambiasse in
qualche parte il consueto modo di procedere dei concili generali nel trattare
le questioni, né che si aggiungesse o si tralasciasse qualche cosa di nuovo in
alcuna questione, rispetto a ciò che fino a questo momento è stato stabilito
dai sacri canoni o dalla prassi dei concili generali.
Decreto per l’indizione della futura sessione.
Il sacrosanto
concilio stabilisce, inoltre, e dispone che la prossima futura sessione debba
essere celebrata il giovedì dopo la concezione della beata vergine Maria, che
sarà il nove dicembre prossimo, con facoltà anche di abbreviare questo termine.
In tale sessione si tratterà del sesto capitolo, ora rinviato, degli altri
capitoli della riforma già presentati e di altre questioni che si riconnettono ad
essa. Se poi sembrasse opportuno e il tempo lo permettesse, si potranno
trattare anche alcune dottrine, come sarà proposto a suo tempo nelle
congregazioni.
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