SESSIONE XIV (25 novembre 1551)
Dottrina dei santissimi sacramenti della penitenza e
dell’estrema unzione.
Il sacrosanto
concilio ecumenico e generale Tridentino, riunito legittimamente nello Spirito
santo, sotto la presidenza dello stesso legato e degli stessi nunzi della santa
sede, quantunque del sacramento della penitenza si sia parlato molto nel
decreto sulla giustificazione quasi necessariamente, per la stretta relazione
degli argomenti, è tanto, tuttavia, in questa nostra età, il cumulo dei diversi
errori su di esso, che non sarà di poca utilità pubblica dare di esso una
definizione più esatta e più completa. In essa, messi a nudo e abbattuti tutti
gli errori con l’aiuto dello Spirito santo, la verità cattolica diverrà più chiara
e più evidente. Questo santo sinodo la propone ora a tutti i cristiani, perché
la conservino per sempre.
Capitolo I.
Della necessità e della istituzione del sacramento della
penitenza.
Se in tutti i
rigenerati la gratitudine verso Dio fosse tale, da conservare per sempre la
giustizia ricevuta, per suo beneficio e grazia, nel battesimo, non sarebbe
stato necessario che fosse istituito un altro sacramento diverso dal battesimo
stesso, per la remissione dei peccati.
Ma Dio, ricco di misericordia (240), conosce la
nostra debolezza (241), ha trovato il rimedio della vita anche per quelli
che si fossero, poi, consegnati alla schiavitù del peccato e al potere dei
demoni, e cioè il sacramento della penitenza, con cui a chi cade dopo il
battesimo, è applicato il beneficio della morte di Cristo.
La penitenza è stata sempre necessaria, per conseguire la
grazia e la giustificazione, a qualsiasi uomo, che si fosse macchiato di
peccato mortale, anche a quelli che domandano di essere lavati col sacramento
del battesimo, perché, rinunciando al male e correggendolo, mostrassero di
detestare una così grande offesa, fatta a Dio, con l’odio del peccato e col pio
dolore dell’anima. Per questo il profeta disse: Convertitevi e fate
penitenza di tutte le vostre iniquità, e l’iniquità non vi sarà di rovina
(242). Anche il Signore disse: Se non farete penitenza, perirete tutti allo
stesso modo (243). E Pietro, il primo degli apostoli, ai peccatori che si
preparavano al battesimo diceva, raccomandando la penitenza: Fate penitenza,
e ognuno di voi sia battezzato (244).
La penitenza, inoltre, né prima della venuta del Cristo era
un sacramento, né dopo la sua venuta, per nessuno, prima del battesimo. Il
Signore, poi, istituì il sacramento della penitenza principalmente quando,
risorto dai morti, soffiò sui suoi discepoli dicendo: Ricevete lo Spirito
santo; a coloro, cui rimetterete i peccati, saranno rimessi. A coloro cui li
riterrete, saranno ritenuti (245).
Che con questo
avvenimento così importante e con queste parole così chiare, sia stato
comunicato agli apostoli e ai loro legittimi successori il potere di rimettere
o di ritenere i peccati, per riconciliare i fedeli caduti dopo il battesimo, il
consenso di tutti i padri l’ha sempre così interpretato e la chiesa cattolica
rigettò e condannò con piena ragione come eretici i Novaziani, che un tempo
negavano ostinatamente il potere di rimettere i peccati.
Perciò questo santo
sinodo, approvando e accogliendo questo verissimo senso di quelle parole del
Signore, condanna le fantastiche interpretazioni di quelli che traggono
falsamente quelle parole a significare il potere di predicare la parola di Dio
e di annunziare il vangelo del Cristo, contro l’istituzione di questo
sacramento.
Capitolo II.
Differenza tra il sacramento della penitenza e il battesimo.
Del resto questo sacramento differisce dal battesimo per
molte ragioni. Infatti, oltre che esser diversissimi per la materia e la forma,
che costituiscono l’essenza del sacramento, è certo che il ministro del
battesimo non deve essere un giudice. La chiesa, infatti, non esercita su
nessuno il suo giudizio, se prima non è entrato a far parte di essa attraverso
la porta del battesimo. Che interessa a me (afferma l’apostolo) giudicare
quelli che sono fuori? (246).
Diversamente,
invece, agisce con quelli che sono suoi familiari nella fede (247), una volta
che il signore Gesù li ha fatti membra del suo corpo col lavacro del battesimo
(248). Se questi, infatti, dopo, si fossero contaminati con qualche peccato,
essa volle non già che fossero purificati ripetendo il battesimo (cosa che
nella chiesa cattolica non è in nessun modo possibile), ma che comparissero
dinanzi a questo tribunale come rei, affinché con la sentenza del sacerdote
potessero essere liberati non una volta soltanto, ma tutte le volte che,
pentendosi dei peccati commessi, cercassero rifugio presso di lui.
Altro, poi, è il
frutto del battesimo, altro quello della penitenza. Col battesimo, infatti,
rivestendo Cristo (249), diventiamo in lui una creatura del tutto nuova,
conseguendo la piena e totale remissione di tutti i peccati. Ora col sacramento
della penitenza non è possibile giungere ad un tale rinnovamento ed integrità
senza grandi gemiti e fatiche, date le esigenze della divina giustizia. Così
che a buon diritto la penitenza è stata chiamata dai santi padri (250), in
certo modo, un battesimo laborioso.
Per coloro che sono
caduti dopo il battesimo questo sacramento della penitenza è necessario alla
salvezza, come lo stesso battesimo per quelli che non sono stati ancora
rigenerati.
Capitolo III.
Parti e frutto di questo sacramento.
Insegna, inoltre, il
santo sinodo, che la forma del sacramento della penitenza, nella quale è posta
tutta la sua efficacia, è in quelle parole del ministro: lo ti assolvo ecc.,
alle quali, nell’uso della santa chiesa, si aggiungono lodevolmente alcune
preghiere, ma che non appartengono in nessun modo all’essenza della forma e non
sono necessarie all’amministrazione del sacramento.
Sono quasi materia
di questo sacramento gli atti dello stesso penitente e cioè: la contrizione, la
confessione, la soddisfazione. E poiché questi si richiedono, nel penitente,
per l’integrità del sacramento e per la piena e perfetta remissione dei
peccati, per questo sono considerati parti della penitenza.
Sostanza ed effetto
di questo sacramento, per quanto riguarda la sua azione e la sua efficacia, è
la riconciliazione con Dio, che non di rado nelle persone pie e che ricevono
questo sacramento con devozione, suole essere accompagnata da pace e serenità
della coscienza e da vivissima consolazione dello spirito.
Insegnando queste
cose sulle parti e sull’effetto di questo sacramento, il concilio condanna
nello stesso tempo le opinioni di coloro che affermano essere parti della
penitenza i terrori della coscienza e la fede.
Capitolo IV.
La contrizione
La contrizione, che
tra i suddetti atti del penitente occupa il primo posto, è il dolore dell’animo
e la detestazione del peccato commesso, col proposito di non peccare più in
avvenire.
Questo atto della
contrizione è stato sempre necessario per impetrare la remissione dei peccati.
Nell’uomo caduto in peccato dopo il battesimo, esso prepara alla remissione dei
peccati solo se congiunto con la fiducia della divina misericordia e col
desiderio di fare ciò che ancora si richiede per ricevere nel modo dovuto
questo sacramento.
Dichiara, quindi, il santo sinodo, che questa contrizione
include non solo la cessazione del peccato e il proposito e l’inizio di una
nuova vita, ma anche l’odio della vecchia vita, conforme all’espressione: Allontanate
da voi tutte le vostre iniquità, con cui avete prevaricato e costruitevi un
cuore nuovo ed un’anima nuova (251).
Certamente colui che riflette su quelle grida dei santi: Ho
peccato contro te solo ed ho compiuto il male contro di te (252); sono stanco
di gemere, vado lavando ogni notte il mio giaciglio (253); ripenserò a tutti i
miei anni, nell’amarezza della mia anima (254), e su altre simili, comprenderà
facilmente che esse provenivano da un odio veramente profondo della vita
passata e da una grande detestazione del peccato.
Insegna, inoltre, il
concilio che, se anche avviene che questa contrizione talvolta possa esser
perfetta nell’amore, e riconcilia l’uomo con Dio, già prima che questo
sacramento realmente sia ricevuto, tuttavia questa riconciliazione non è da attribuirsi
alla contrizione in sé senza il proposito di ricevere il sacramento incluso in
essa.
E dichiara anche che
quella contrizione imperfetta, che vien detta ‘attrizione’ perché prodotta
comunemente o dalla considerazione della bruttezza del peccato o dal timore
dell’inferno e delle pene, se esclude la volontà di peccare con la speranza del
perdono, non solo non rende l’uomo ipocrita e maggiormente peccatore, ma è
addirittura un dono di Dio ed un impulso dello Spirito santo, - che non abita
ancora nell’anima, ma che soltanto la sprona - da cui il penitente viene
stimolato e con cui si prepara la via alla giustizia. E quantunque per sé,
senza il sacramento della penitenza, sia impotente a condurre il peccatore alla
giustificazione, tuttavia lo dispone ad impetrare la grazia di Dio nel
sacramento della penitenza.
Scossi, infatti,
salutarmente da questo timore, gli abitanti di Ninive fecero penitenza alla
predicazione di Giona, piena di minacce. Ed ottennero misericordia da Dio
(255).
Perciò falsamente
alcuni accusano gli scrittori cattolici, quasi abbiano insegnato che il
sacramento della penitenza conferisca la grazia senza un moto interiore, buono,
di chi lo riceve: cosa che la chiesa di Dio non ha mai insegnato e mai creduto.
Ma anche questo
insegnano falsamente: che, cioè, la contrizione sia cosa estorta e forzata, non
libera e volontaria.
Capitolo V.
La confessione.
Dalla istituzione del sacramento della penitenza già
spiegata, tutta la chiesa ha sempre creduto che sia stata istituita anche, dal
Signore, la confessione completa dei peccati (256) e che per tutti quelli che
dopo il battesimo siano caduti in peccato essa sia necessaria iure divino;
Gesù Cristo, infatti, nostro signore, poco prima di salire dalla terra in
cielo, lasciò i sacerdoti, suoi vicari (257), come capi e giudici (258), cui
devono deferirsi tutte le colpe mortali, in cui i fedeli cristiani fossero
caduti, perché, in virtù del potere delle chiavi, pronunzino la sentenza di
remissione o di retenzione. È chiaro, infatti, che i sacerdoti non avrebbero
potuto esercitare questo giudizio senza conoscere la causa né imporre le
penitenze con equità, se i penitenti avessero dichiarato i loro peccati solo
genericamente, e non invece, nella loro specie ed uno per uno.
Si conclude da ciò
che è necessario che i penitenti manifestino nella confessione tutti i peccati
mortali, di cui hanno consapevolezza dopo un diligente esame di coscienza,
anche se essi sono del tutto nascosti e sono stati commessi soltanto contro i
due ultimi comandamenti del Decalogo (259), che spesso feriscono più gravemente
l’anima, e sono più pericolosi di quelli che si commettono alla luce del sole.
I veniali, infatti,
dai quali non siamo privati della grazia di Dio, e nei quali cadiamo più
facilmente, benché opportunamente ed utilmente e al di fuori di ogni
presunzione vengano manifestati in confessione (come dimostra l’uso di persone
pie), possono tuttavia esser taciuti senza colpa ed espiati con molti altri
rimedi. Ma poiché tutti i mortali, anche solo di pensiero, rendono gli uomini
figli dell’ira (260) e nemici di Dio, è anche necessario chiedere perdono di
tutti a Dio con una esplicita ed umile confessione.
Quindi, mentre i
fedeli cristiani si studiano di confessare tutti i peccati che vengono loro in
mente, senza dubbio li espongono tutti alla divina misericordia perché li
perdoni. Quelli, invece, che fanno diversamente e ne tacciono consapevolmente
qualcuno, non espongono nulla alla divina bontà perché li perdoni per mezzo del
sacerdote. Se infatti l’ammalato si vergognasse di mostrare al medico la
ferita, il medico non potrebbe curare quello che non conosce.
Si deduce, inoltre,
che nella confessione debbano manifestarsi anche quelle circostanze che mutano
la specie del peccato: senza di esse, infatti, né il penitente espone
completamente gli stessi peccati, né questi potrebbero venir conosciuti dai
giudici e sarebbe impossibile ad essi percepire esattamente la gravità delle
colpe ed imporre per essa ai penitenti la pena dovuta.
Non è quindi
ragionevole insegnare che queste circostanze sono state inventate da uomini
oziosi o che debba confessarsi questa sola circostanza: che si è peccato contro
il fratello.
Ed è empio affermare che una tale confessione sia
impossibile o chiamarla carneficina delle coscienze. Tutti sanno, infatti, che
la chiesa nient’altro richiede da chi si confessa, se non di confessare - dopo
che ciascuno si è diligentemente esaminato ed ha esplorato tutti gli angoli più
riposti della sua coscienza - quei peccati, con cui egli si ricorda di aver
offeso mortalmente il suo Signore e suo Dio; gli altri peccati, che, pur
esaminandosi diligentemente, non gli vengano in mente, si ritengono inclusi
genericamente nella stessa confessione. Per questi noi diciamo con fede assieme
al profeta: Dai miei peccati occulti, purificami, Signore (261).
Quanto poi alla
difficoltà di questa confessione e alla vergogna di dover manifestare i
peccati, può sembrare certamente grave; ma essa è alleggerita dai tanti e così
grandi vantaggi e consolazioni, che con l’assoluzione vengono certissimamente
elargiti a tutti quelli che si accostano degnamente a questo sacramento.
Del resto, per
quanto riguarda il modo di confessarsi segretamente dinanzi al solo sacerdote,
quantunque Cristo non abbia proibito che uno, in punizione dei suoi peccati e
per propria umiliazione, sia come esempio per gli altri, che per edificazione
della Chiesa, che è stata offesa, possa confessare pubblicamente i suoi
peccati, ciò non è comandato da alcuna legge divina; e non sarebbe saggio
comandare con una legge umana che si manifestassero le colpe, specie se
segrete, con una pubblica confessione.
Poiché, quindi, la
confessione sacramentale segreta, che la santa chiesa ha usato fin dall’inizio
ed usa ancora, è stata sempre raccomandata con grande, unanime consenso dai padri
più santi e più antichi, evidentemente risulta vana la calunnia di coloro che
non hanno scrupolo di insegnare che essa è aliena dal comando divino, che è
invenzione umana, e che ha avuto inizio dai padri del concilio Lateranense. La
chiesa, infatti, col concilio Lateranense non ha stabilito che i fedeli
cristiani si confessassero, - cosa che essa sapeva bene essere necessaria ed
essere stata istituita dal diritto divino -, ma che l’obbligo della confessione
venisse adempiuto almeno una volta all’anno da tutti e singoli quelli che
fossero giunti all’età della ragione (262).
È per questo che in
tutta la chiesa è invalso l’uso salutare, con grandissimo frutto per le anime,
di confessarsi durante il tempo sacro e sommamente accetto della Quaresima.
Quest’uso, il santo sinodo lo approva sommamente e lo abbraccia come pio e
degno di essere conservato.
Capitolo VI.
Del ministro di questo sacramento e dell’assoluzione.
Quanto al ministro di questo sacramento, il santo sinodo
dichiara, che sono false e del tutto aliene dalla verità del vangelo tutte
quelle dottrine che estendono perniciosamente a qualsiasi altro uomo, oltre i
vescovi e i sacerdoti, il ministero delle chiavi. Esse ritengono che quelle
parole del Signore: Tutto ciò che legherete sulla terra, sarà legato anche
in cielo, e tutto ciò che scioglierete sulla terra, sarà sciolto anche in cielo
(263) e: a quelli, di cui avrete rimesso i peccati, saranno rimessi, a
quelli, di cui li avrete ritenuti, saranno ritenuti (264) siano state dette
a tutti i fedeli del Cristo, senza differenza alcuna e senza distinzione,
contro l’istituzione di questo sacramento; così che ognuno abbia il potere di
rimettere i peccati: quelli pubblici con la correzione, se chi viene corretto
si sottomette; i segreti, attraverso una spontanea confessione, fatta a
chiunque.
Il concilio insegna
pure che anche quei sacerdoti che sono in peccato mortale, per la grazia dello
Spirito santo, conferita nell’ordinazione, esercitano la funzione di perdonare
i peccati come ministri di Cristo e che non giudicano secondo verità quelli che
sostengono che questo potere manchi ai sacerdoti cattivi.
Quantunque, poi,
l’assoluzione del sacerdote sia l’elargizione di un beneficio che si fa ad
altri, essa non è soltanto un nudo ministero di annunziare il vangelo o di
dichiarare rimessi i peccati, ma come un atto giudiziario, essa è pronunciata
come la sentenza di un giudice.
Perciò il penitente
non deve compiacersi tanto della sua fede, da credere che, se anche non avesse
alcuna contrizione, o mancasse al sacerdote l’intenzione di agire seriamente o
di assolvere, egli sia davvero assolto, dinanzi a Dio, per la sola fede. La
fede, infatti, non potrebbe operare in nessun modo la remissione dei peccati e
si dimostrerebbe negligentissimo della sua salvezza, chi si accorgesse che un
sacerdote lo assolve per ischerzo, e non ne cercasse diligentemente un altro.
Capitolo VII.
Dei casi riservati.
Poiché la natura e
l’indole del giudizio richiede che la sentenza venga pronunziata solo sui
sudditi, vi è stata sempre nella chiesa di Dio questa persuasione - e questo
sinodo conferma essere verissimo - che debba essere di nessun valore
quell’assoluzione che il sacerdote pronuncia su colui sul quale non abbia
giurisdizione, ordinaria o delegata.
È sembrato anche ai
santissimi nostri padri essere del più grande interesse per la formazione del
popolo cristiano, che alcuni peccati più orribili e più gravi venissero assolti
non da chiunque, ma solo dai sommi sacerdoti. Giustamente, quindi, i pontefici
massimi, in forza di quel supremo potere che è stato loro conferito su tutta la
chiesa, hanno potuto riservare al loro particolare giudizio alcuni casi di
colpe.
Né deve mettersi in dubbio (dato che tutto ciò che viene da
Dio, è ordinato (265)) che la stessa cosa sia concessa a tutti i vescovi,
ciascuno nella sua diocesi, — in edificazione, tuttavia, non in distruzione
(266) — per quella autorità che è stata loro conferita sui sudditi in confronto
agli altri sacerdoti inferiori, specie per quelle colpe, cui è annessa la
censura di scomunica.
È anche in armonia
con l’autorità divina che questa riserva delle colpe abbia forza non solo nella
vita esterna della società, ma anche dinanzi a Dio.
E tuttavia con
disposizione sommamente pia, perché nessuno a causa di ciò debba perire, si
ebbe sempre cura nella chiesa di Dio, che non vi fosse alcuna riserva in punto
di morte; e quindi tutti i sacerdoti possono assolvere qualsiasi penitente da
qualsiasi peccato e da qualsiasi censura.
Fuori di questo
caso, però, i sacerdoti, non avendo alcun potere nei casi riservati, cerchino
di persuadere i penitenti di quest’unica cosa: che per la grazia
dell’assoluzione vadano dai superiori e legittimi giudici.
Capitolo VIII.
Della necessità e del frutto della soddisfazione.
Finalmente, quanto
alla soddisfazione - che, come fra tutte le parti della penitenza è stata
sempre raccomandata al popolo cristiano dai nostri padri, così in questa nostra
età è quella che, sotto il pretesto di una vivissima pietà, viene maggiormente
presa d’assalto da coloro che mostrano certamente l’apparenza della pietà, ma
ne negano la sostanza - il santo sinodo dichiara essere assolutamente falso e
lontano dalla parola di Dio, che dal Signore mai venga rimessa la colpa, senza
che venga completamente rimessa anche la pena. Vi sono infatti, nella sacra
Scrittura, esempi chiari ed evidenti, da cui, al di fuori della divina
tradizione, questo errore può essere confutato (267).
Del resto, sembra
anche conforme alla divina giustizia, che siano diversamente ammessi alla
grazia divina quelli che prima del battesimo hanno peccato per ignoranza, e
quelli che, una volta liberati dalla servitù del peccato e del demonio e
ricevuto il dono dello Spirito santo, non hanno avuto ritegno a violare
consapevolmente il tempio di Dio (268) e a contristare lo Spirito santo (269).
Ed è conforme alla
divina clemenza, che non ci vengano rimessi i peccati senza alcuna nostra
soddisfazione, perché non avvenga che noi, prendendo occasione da ciò, e
credendo tutti i peccati leggeri, come gente sempre pronta a recare ingiuria ed
offesa allo Spirito santo (270), cadiamo in peccati più gravi, accumulando su
noi la collera per il giorno dell’ira (271).
Senza dubbio,
infatti, ci trattengono molto dal peccato e quasi ci reprimono come un freno,
queste pene imposte a soddisfazione e rendono assai più cauti e vigilanti i
penitenti per il futuro. Sono anche una medicina per ciò che rimane del peccato
e, con le azioni contrarie delle virtù, contribuiscono a togliere le cattive
abitudini acquistate col mal vivere.
Nella chiesa di Dio
mai si è creduto che si potesse trovare una via più sicura per allontanare una
punizione imminente da parte di Dio di quella che gli uomini pratichino queste
opere di penitenza (272) con vero dolore dell’animo.
Si aggiunge che
mentre soffriamo in soddisfazione per i nostri peccati, noi diveniamo conformi
a Gesù Cristo, che ha soddisfatto per i nostri peccati (273) e da cui viene
ogni nostra sufficienza (274), ed abbiamo una certissima caparra che, se
soffriamo insieme, insieme saremo anche glorificati (275).
Inoltre questa
soddisfazione, che noi soffriamo per i nostri peccati, non è talmente nostra,
da non esserlo per mezzo di Gesù Cristo. Noi, infatti, che non possiamo nulla
da noi stessi (276), col suo aiuto però possiamo tutto in Lui che ci rende
forti (277). Quindi l’uomo non ha di che gloriarsi; ma ogni motivo di lode è,
per noi, riposto in Cristo (278), in cui viviamo (279), in cui meritiamo, in
cui diamo soddisfazione, facendo degni frutti di penitenza (280), che da lui
traggono il loro valore, da lui sono offerti al Padre, e che per via sua sono
accettati da Dio.
I sacerdoti del
Signore, quindi, secondo che suggerirà lo spirito e la prudenza, devono imporre
salutari e giuste soddisfazioni, tenuto conto della qualità dei peccati, e
delle possibilità dei penitenti, affinché, qualora fossero in qualche modo
conniventi ai peccati e troppo indulgenti coi penitenti, imponendo leggerissime
opere di penitenza per gravissime colpe, non diventino partecipi dei peccati
degli altri.
Abbiano poi dinanzi
agli occhi che la soddisfazione che impongono sia non soltanto presidio per la
nuova vita e medicina per la debolezza, ma anche pena e castigo per i peccati
passati. Che, infatti, le chiavi dei sacerdoti siano state concesse non solo
per sciogliere, ma anche per legare (281), lo credono e lo insegnano anche gli
antichi padri. Non per questo tuttavia essi pensarono che il sacramento della
penitenza fosse il tribunale dell’ira e delle pene. Così come nessun cattolico
credette mai che da queste nostre soddisfazioni venisse oscurato, o in qualche
parte diminuito il valore del merito e della soddisfazione del Signore nostro
Gesù Cristo.
Quando i novatori
dimostrano di non voler comprendere ciò, essi insegnano che la vita nuova è la
miglior penitenza; ma in modo tale da togliere alla soddisfazione ogni valore
ed ogni utilità.
Capitolo IX.
Delle opere satisfattorie.
Insegna, inoltre,
questo sinodo che la larghezza della munificenza divina è così grande, che noi
possiamo soddisfare presso Dio, per mezzo di Gesù Cristo, non solo con le
penitenze da noi scelte spontaneamente per scontare il peccato o imposte a noi
ad arbitrio del sacerdote secondo la gravità del peccato, ma anche (ed è il
segno più grande dell’amore) con i flagelli temporali, da Dio inflittici e da
noi accettati pazientemente.
Dottrina sul sacramento dell’estrema unzione.
È sembrato bene,
poi, al santo sinodo aggiungere alla precedente dottrina sulla penitenza ciò
che segue sul sacramento dell’estrema unzione, considerato dai padri come il
perfezionamento e della penitenza e di tutta la vita cristiana, che dev’essere
una perpetua penitenza.
Come prima cosa,
quindi, per quanto riguarda la sua istituzione, il concilio dichiara e insegna
che il nostro clementissimo Redentore - il quale volle che fosse sempre
provveduto ai suoi servi con rimedi salutari contro tutti gli assalti di tutti
i nemici - come ha disposto gli aiuti più efficaci negli altri sacramenti con
cui i cristiani, mentre vivono possano garantirsi contro i più gravi mali
spirituali, così col sacramento dell’estrema unzione ha voluto munire la fine
della vita con una fortissima difesa. Quantunque, infatti, il nostro avversario
cerchi ed afferri ogni occasione per divorare le nostre anime in qualsiasi modo
in tutta la vita (282), non vi è tempo, però, in cui egli impieghi tutta la sua
astuzia per perderci completamente e allontanarci anche, se possibile, dalla
fiducia nella divina misericordia, con maggior veemenza, di quando egli vede
che è imminente la fine della vita.
Capitolo I.
L’istituzione del sacramento dell’estrema unzione.
Questa unzione degli infermi è stata istituita come vero e
proprio sacramento del nuovo Testamento dal Signore nostro Gesù Cristo.
Accennato da Marco (283), è stato raccomandato ai fedeli e promulgato da
Giacomo, apostolo e fratello del Signore. Cade infermo qualcuno di voi?
dice Chiami gli anziani della chiesa; preghino su di lui; lo ungano con olio
nel nome del Signore. La preghiera della fede salverà l’infermo e il Signore lo
solleverà. E se si troverà nei peccati, gli verranno perdonati (284).
Con queste parole - come la chiesa ha imparato dalla
tradizione apostolica, trasmessa di mano in mano - egli insegna la materia, la
forma, il ministro proprio e l’effetto di questo salutare sacramento. La
chiesa, infatti, ha inteso che la materia è l’olio benedetto dal vescovo:
l’unzione, infatti, rappresenta in modo perfetto la grazia dello Spirito santo,
da cui l’anima dell’ammalato viene unta invisibilmente e che la forma sono le
parole: Per questa santa unzione, ecc.
Capitolo II.
Gli effetti di questo sacramento.
L’efficacia e l’effetto, inoltre, di questo sacramento viene
spiegata dalle parole: la preghiera della fede salverà l’infermo e il
Signore lo solleverà. E se si trovasse nei peccati, gli saranno perdonati
(285). Questo effetto, infatti, è la grazia dello Spirito santo, la cui unzione
lava i peccati, se ve ne fossero ancora da espiare, e le conseguenze del
peccato; solleva e rafforza l’anima dell’ammalato, eccitando in lui una grande
fiducia nella divina misericordia. L’infermo, sollevato da essa, sopporta più
facilmente le molestie del male, e i travagli; e resiste più facilmente alle
tentazioni del demonio che insidia il suo calcagno (286), e qualche volta, se
giova alla salvezza dell’anima, riacquista la salute del corpo.
Capitolo III.
Del ministro di questo sacramento e del tempo in cui bisogna
amministrarlo.
Per quanto, poi, riguarda l’indicazione di coloro che devono
ricevere e amministrare questo sacramento, anche questo è stato indicato
chiaramente nelle parole predette: vi si indica, infatti, che ministri propri
di questo sacramento sono i presbiteri della chiesa, nome con cui si devono
intendere, in questo passo, non i più anziani o i più ragguardevoli del popolo,
ma i vescovi, o i sacerdoti da essi regolarmente ordinati con l’imposizione
delle mani del collegio dei sacerdoti (287).
Si dice anche che
questa unzione dev’essere fatta agli infermi, specialmente a quelli che sono
ammalati tanto gravemente da dar l’impressione che siano in fin di vita: per
questo si chiama il sacramento dei moribondi.
Se gli infermi,
ricevuta questa unzione, guariranno, potranno ancora usufruire dell’aiuto di
questo sacramento, quando cadessero in altro simile pericolo di vita.
Non sono, quindi, da
ascoltarsi in nessun modo quelli che, contro un pensiero così aperto e chiaro
dell’apostolo Giacomo, insegnano che questa unzione è un’invenzione umana o un
rito ricevuto dai padri, senza che abbia né il comando di Dio, né la promessa
della grazia. E così pure quelli (che dicono) che essa è già cessata, quasi che
nella primitiva chiesa avesse solo lo scopo di ottenere la grazia delle
guarigioni; e quelli che affermano che il rito e l’uso che la chiesa Romana
osserva nell’amministrazione di questo sacramento, è in contrasto con quanto
dice l’apostolo Giacomo, e che, quindi, bisogna cambiarlo. E quelli,
finalmente, che dicono che questa estrema unzione può esser tranquillamente
tenuta in nessun conto dai fedeli. Tutto ciò, infatti, contrasta
fortissimamente con le chiare espressioni di un così grande apostolo. Del
resto, la chiesa romana, madre e maestra di tutte le altre, non segue altro,
nell’amministrare questa unzione (per quanto riguarda la sostanza di questo
sacramento), se non quello che prescrisse S. Giacomo.
Né il disprezzo di
un così grande sacramento potrebbe aver luogo senza grande empietà e senza
ingiuria dello stesso Spirito santo.
Questo è quanto il
santo concilio ecumenico professa ed insegna sui sacramenti della penitenza e
dell’estrema unzione, e che propone a tutti i cristiani perché lo credano e lo
ritengano per vero. Ed afferma che i seguenti canoni dovranno essere
inviolabilmente osservati, condannando e anatematizzando per sempre quelli che
affermano il contrario.
CANONI SUL
SANTISSIMO SACRAMENTO DELLA PENITENZA
1. Se qualcuno dirà
che nella chiesa cattolica la penitenza non è un vero e proprio sacramento
istituito dal signore nostro Gesù Cristo, per riconciliare i fedeli con Dio,
ogni volta che cadono nei peccati dopo il battesimo, sia anatema.
2. Se qualcuno,
confondendo i sacramenti, dirà che il sacramento della penitenza è lo stesso
battesimo, quasi che questi due sacramenti non siano distinti e che perciò la
penitenza non può essere chiamata la seconda tavola di salvezza, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà che le parole del Salvatore: Ricevete
lo Spirito santo: saranno rimessi i peccati di quelli, cui li rimetterete e
ritenuti a quelli cui li riterrete (288) non devono intendersi del potere
di rimettere e di ritenere i peccati nel sacramento della penitenza, come
sempre, fin dall’inizio, ha interpretato la chiesa cattolica, e per contraddire
l’istituzione di questo sacramento, ne falsa il significato come se si
trattasse del potere di predicare il vangelo, sia anatema.
4. Se qualcuno
negherà che per la remissione completa e perfetta dei peccati si richiedano,
nel penitente, come materia del sacramento della penitenza, questi tre atti: la
contrizione, la confessione e la soddisfazione, che sono le tre parti della
penitenza o dirà che due sole sono le parti della penitenza, e cioè: i terrori indotti
alla coscienza dalla conoscenza del peccato e la fede, concepita attraverso il
vangelo o l’assoluzione, per cui ciascuno crede che gli sono rimessi i peccati
per mezzo del Cristo, sia anatema.
5. Se qualcuno dirà
che quella contrizione, che si ottiene con l’esame, il raccoglimento, e la
detestazione dei peccati — per cui uno, ripensando alla propria vita
nell’amarezza della sua anima (289), riflettendo alla gravità, alla
moltitudine, alla bruttezza dei suoi peccati, alla perdita della beatitudine eterna
e all’essere incorso nella eterna dannazione, col proposito di una vita
migliore — non è un dolore vero ed utile, che non prepara alla grazia, ma che
rende l’uomo ipocrita e ancor più peccatore e che, finalmente, essa è un dolore
imposto, non libero e volontario, sia anatema.
6. Se qualcuno
negherà che la confessione sacramentale sia stata istituita da Dio, o che sia
necessaria per volere divino o dirà che il modo di confessarsi segretamente al
solo sacerdote, come ha sempre usato ed usa la chiesa cattolica fin
dall’inizio, è estraneo all’istituzione e al comando del Cristo ed invenzione
umana, sia anatema.
7. Se qualcuno dirà
che nel sacramento della penitenza non è necessario per disposizione divina
confessare tutti e singoli i peccati mortali, di cui si abbia la consapevolezza
dopo debita e diligente riflessione, anche occulti, e commessi contro i due
ultimi precetti del decalogo ed anche le circostanze che mutassero la specie
del peccato; o dire che la confessione è utile soltanto ad istituire e consolare
il penitente, e che un tempo fu osservata solo per imporre la penitenza
canonica; o che quelli che si studiano di confessare tutti i peccati, non
intendono lasciar nulla alla divina misericordia, perché lo perdoni; o,
finalmente, che non è lecito confessare i peccati veniali, sia anatema.
8. Se qualcuno dirà
che la confessione di tutti i peccati, come prescrive la chiesa cattolica, è
impossibile, e che si tratta di una tradizione umana, che i buoni devono
abolire, o che ad essa non sono tenuti, una volta all’anno, tutti e singoli i
fedeli dell’uno e dell’altro sesso, secondo la costituzione del grande concilio
Lateranense (290) e che, perciò, bisogna persuadere i fedeli che non si
confessino in tempo di quaresima, sia anatema.
9. Se qualcuno dirà
che l’assoluzione sacramentale del sacerdote non è un atto giudiziario, ma un
semplice ministero di pronunciare e di dichiarare che i peccati sono stati
rimessi al penitente, purché solo creda di essere stato assolto, anche nel caso
che il sacerdote non lo assolva seriamente, ma per ischerzo; o dirà che non si
richiede la confessione del penitente, perché il sacerdote lo possa assolvere,
sia anatema.
10. Se qualcuno dirà che i sacerdoti che sono in peccato
mortale non hanno il potere di legare e di sciogliere, o che non i soli
sacerdoti sono ministri dell’assoluzione, ma che a tutti i singoli i fedeli
cristiani è stato detto: Qualsiasi cosa avrete legato sulla terra, sarà
legata anche in cielo; e qualsiasi cosa avrete sciolto sulla terra, sarà
sciolta anche nel cielo (291) e: A quelli ai quali avrete rimesso i
peccati, saranno perdonati, e a quelli, cui li avrete ritenuti, saranno
ritenuti (292) e che in virtù di queste parole ciascuno possa perdonare
peccati; e cioè: i peccati pubblici con la sola riprensione, se colui che viene
ripreso accetterà di buon animo; i segreti, con una confessione spontanea, sia
anatema.
11. Se qualcuno dirà
che i vescovi non hanno il diritto di riservarsi dei casi, se non in ciò che
riguarda la disciplina esterna e che, quindi, la riserva dei casi non impedisce
che il sacerdote possa assolvere validamente dai casi riservati, sia anatema.
12. Se qualcuno dirà
che tutta la pena viene sempre rimessa da Dio insieme alla colpa, e che l’unica
soddisfazione dei penitenti è la fede, con cui apprendono che Cristo ha
soddisfatto per essi, sia anatema.
13. Se qualcuno dirà
che per quanto riguarda la pena temporale, non si soddisfa affatto, per i
peccati, a Dio per mezzo dei meriti di Cristo con le penitenze da lui inflitte
e pazientemente tollerate, o imposte dal sacerdote; e neppure con quelle che
uno sceglie spontaneamente, come i digiuni, le preghiere, le elemosine, o anche
altre opere di pietà; e che, perciò, la miglior penitenza è una vita nuova, sia
anatema.
14. Se qualcuno dirà
che le soddisfazioni, con cui i penitenti per mezzo di Gesù Cristo cercano di
riparare i peccati non sono culto di Dio, ma tradizioni umane, che oscurano la
dottrina della grazia e il vero culto di Dio e lo stesso beneficio della morte
del Signore, sia anatema.
15. Se qualcuno dirà
che le chiavi sono state date alla chiesa solo per sciogliere e non anche per
legare e che, quindi, quando i sacerdoti impongono delle penitenze a quelli che
si confessano, agiscono contro il fine delle chiavi e contro l’istituzione del
Cristo e che è una finzione che, rimessa la pena eterna in virtù delle chiavi,
rimanga ancora la pena temporale da scontare, sia anatema.
CANONI SUL
SACRAMENTO DELL’ESTREMA UNZIONE
1. Se qualcuno dirà
che l’estrema unzione non è un vero e proprio sacramento, istituito da nostro
signore Gesù Cristo (293), e promulgato dal beato Giacomo apostolo (294), ma
solo un rito tramandato dai padri o una invenzione umana, sia anatema.
2. Se qualcuno dirà
che l’unzione sacra degli infermi non conferisce la grazia, non rimette i
peccati e non solleva gli infermi, ma che ormai è in disuso, quasi che un tempo
sia stata solo la grazia delle guarigioni, sia anatema.
3. Se qualcuno dirà
che il rito e l’uso dell’estrema unzione, così come lo pratica la chiesa
cattolica, è in contrasto con quanto afferma san Giacomo apostolo e che,
quindi, deve essere cambiato e che può essere tranquillamente disprezzato dai
cristiani, sia anatema.
4. Se qualcuno dirà
che i presbiteri della chiesa, che il beato Giacomo apostolo esorta ad addurre
presso l’infermo per ungerlo, non sono i sacerdoti consacrati dal vescovo, ma
gli anziani di ogni comunità e che perciò ministro proprio dell’estrema unzione
non è solo il sacerdote, sia anatema.
Materiale più unico che raro. E prezioso. Tuttavia, una foto-scansione di manoscritti originali dell'epoca sarebbe utile per dare autorevolezza ai testi proposti. O quanto meno di un libro -il più possibile datato-, che ne attesti la conformità storica.
RispondiEliminaDiversamente, in tempi di inganni e falsi profeti chiunque potrebbe manipolarli o inventarseli.