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mercoledì 8 maggio 2013

Paolo Sarpi sulle indulgenze e le polemiche tra Leone X e Lutero ( Istoria Concilio Tridentino)


Dall' "Istoria del Concilio Tridentino" Libro I

[Le indulgenze contese da Lutero]
Dalle quali cose eccitato Martino Lutero, frate dell'ordine degli eremitani, li portò a parlar
contra essi questori; prima riprendendo solamente i nuovi eccessivi abusi, poi, provocato da loro,
incominciò a studiare questa materia, volendo vedere i fondamenti e le radici dell'indulgenza; li
quali essaminati, passando dagli abusi nuovi alli vecchi e dalla fabrica alli fondamenti, diede fuora
95 conclusioni in questa materia, le quali furono proposte da esser disputate in Vitemberga; né
comparendo alcuno contra di lui, se ben viste e lette, non furono da alcuno oppugnate in conferenza
vocale, ma ben frate Giovanni Thecel, dell'ordine di san Domenico, ne propose altre contrarie a
quelle in Francfort di Brandeburg.
Queste due mani di conclusioni furono come una contestazione di lite, perché passò inanzi
Martino Lutero a scrivere in difesa delle sue, e Giovanni Ecchio ad oppugnarle, et essendo andate
cosí le conclusioni, come le altre scritture, a Roma, scrisse contra Lutero frate Silvestro Prierio
dominicano. La qual contesa di scritture sforzò una parte e l'altra ad uscir della materia e passar in
altre di maggiore importanza.
Perché, essendo l'indulgenze cosa non ben essaminata ne' precedenti secoli, né ancora ben
considerata come si difendesse e sostentasse, o come si oppugnasse, non erano ben note la loro
essenza e cause. Alcuni riputavano le indulgenze non esser altro ch'una assoluzione e liberazione,
fatta per autorità del prelato, dalle penitenze che negli antichissimi tempi, per ragion di disciplina, la
Chiesa imponeva a' penitenti, (questa imposizione fu ne' seguenti secoli dal solo vescovo assonta,
poi delegata al prete penitenziario, e finalmente rimessa all'arbitrio del confessore), ma non
liberassero di pagar il debito alla divina giustizia. Il che parendo ad altri che cedesse piú a
maleficio, che a beneficio del popolo cristiano, il quale, coll'esser liberato dalle pene canoniche, si
rendeva negligente a sodisfar con pene volontarie alla divina giustizia, entrarono in opinione che
fossero liberazione dall'una e dall'altra. Ma questi erano divisi, volendo alcuni che fossero
liberazione senza che altro fosse dato in ricompensa di quelle, altri, aborrendo un tal arbitrio,
dicevano che, stante la communione in carità delli membri di Santa Chiesa, le penitenze di uno si
potevano communicar all'altro e con questa compensazione liberarlo. Ma perché pareva che questo
convenisse piú agli uomini di santa et austera vita, che all'autorità de prelati, nacque la terza
opinione che le fece in parte assoluzione, per il che se li ricerchi l'autorità, et in parte
compensazione. Ma non vivendo li prelati in maniera che potessero dar molto de loro meriti ad altri,
si fece un tesoro nella Chiesa pieno de' meriti di tutti quelli che ne hanno abondanza per loro
proprii. La dispensazione del quale è commessa al pontefice romano, il quale, dando l'indulgenze,
ricompensa il debito del peccatore con assegnare altretanto valor del tesoro. Né qui era il fine delle
difficoltà, perché opponendosi che essendo i meriti de' santi finiti e limitati, questo tesoro potrebbe
venir a meno, volendolo fare indeficiente, vi aggionsero i meriti di Cristo che sono infiniti: d'onde
nacque la difficoltà a che fosse bisogno di gocciole de' meriti d'altri, quando si aveva un pelago
infinito di quelli di Cristo. Che fu cagione ad alcuni di fare essere il tesoro delli meriti della Maestà
sua solamente.
Queste cose cosí incerte allora e che non avevano altro fondamento che la bolla di Clemente
VI fatta per il giubileo del 1350, non parevano bastanti per oppugnar la dottrina di Martino Lutero,
risolvere le sue ragioni e convincerlo; perilché Thecel, Ecchio e Prierio, non vedendosi ben forti
nelli luoghi proprii di questa materia, si voltarono alli communi e posero per fondamento l'autorità
pontificia et il consenso delli dottori scolastici, concludendo che, non potendo il pontefice fallare
nelle cose della fede et avendo egli approvata la dottrina de' scolastici e publicando esso le
indulgenze a tutti i fedeli, bisognava crederle per articolo di fede. Questo diede occasione a Martino
di passar dalle indulgenze all'autorità del pontefice, la qual essendo dagli altri predicata per suprema
nella Chiesa, da lui era sottoposta al concilio generale legitimamente celebrato, del quale diceva
esservi bisogno in quella instante et urgente necessità; e continuando il calore della disputa, quanto
piú la potestà papale era dagli altri inalzata, tanto piú da lui era abbassata (contenendosi però
Martino nei termini di parlar modestamente della persona di Leone e riservando alle volte il suo
giudicio). E per l'istessa ragione fu anco messa a campo la materia della remissione de peccati e
della penitenza e del purgatorio, valendosi di tutti questi luoghi i romani per prova delle indulgenze.
Piú appositamente di tutti scrisse contra Martin Lutero, frate Giacomo Ogostrato,
dominicano inquisitore, il qual tralasciate queste ragioni, essortò il pontefice a convincer Martino
con ferro, fuogo e fiamme.

[Lutero è citato a Roma]
Tuttavia si andava essacerbando la controversia e Martino passava sempre inanzi a qualche
nuova proposizione, secondo che gli era data occasione. Perilché Leone pontefice nell'agosto del
1518 lo fece citare a Roma da Gieronimo, vescovo d'Ascoli, auditore della Camera, e scrisse un
breve a Federico, duca di Sassonia, essortandolo a non protegerlo. Scrisse anco a Tomaso de Vio,
cardinale Gaetano, suo legato nella dieta d'Augusta, che facesse ogni opera per farlo prigione e
mandarlo a Roma. Fu operato col pontefice per diversi mezi che si contentasse far essaminar la sua
causa in Germania; il quale trovò buono che fosse veduta dal suo legato, al quale fu commesso quel
giudicio con instruzzione che se avesse scoperto alcuna speranza in Martino di resipiscenza, lo
dovesse ricevere e promettergli impunità delli difetti passati, et anco onori e premii, rimettendo alla
sua prudenza; ma quando lo trovasse incorrigibile, facesse opera con Massimiliano imperatore e con
gli altri prencipi di Germania che fusse castigato.
Martino con salvocondotto di Massimiliano andò a trovar il legato in Augusta, dove, dopo
una conveniente conferenza sopra la materia controversa, scoprendo il cardinale che con termini di
teologia scolastica, nella professione della quale era eccellentissimo, non poteva esser convinto
Martino, che si valeva sempre della Scrittura divina, la quale da scolastici è pochissimo adoperata,
si dichiarò di non voler disputar con lui, ma l'essortò alla retrattazione o almeno a sottometter i suoi
libri e dottrina al giudicio del pontefice, mostrandogli il pericolo in che si trovava persistendo e
promettendogli dal papa favori e grazie. Al che non essendo risposto da Martino cosa in contrario,
pensò che non fosse bene, col molto premere, cavar una negativa, ma interponer tempo, acciò le
minaccie e le promesse potessero far impressione, per il che lo licenziò per allora. Fece anco far
ufficio in conformità da frate Giovanni Stopiccio, vicario generale dell'ordine eremitano.
Tornato Martino un'altra volta, ebbe il cardinale con lui colloquio molto longo sopra i capi
della sua dottrina, piú ascoltandolo che disputando, per acquistarsi credito nella proposta
dell'accommodamento; alla quale quando discese, essortandolo a non lasciar passare un'occasione
tanto sicura et utile, li rispose Lutero con la solita efficacia che non si poteva far patto alcuno a
pregiudicio del vero, che non aveva offeso alcuno, né aveva bisogno della grazia di qual si voglia,
che non temeva minaccie, e quando fosse tentato cosa contra di lui indebita, avrebbe appellato al
concilio. Il cardinale (al quale era andato all'orecchie che Martino fosse assicurato da alcuni grandi
per tener un freno in bocca al pontefice) sospettando che parlasse cosí persuaso, si sdegnò e venne a
riprensioni acerbe e villanie, et a conchiudere che i prencipi hanno le mani longhe, e se lo scacciò
dinanzi. Martino, partito dalla presenza del legato e memore di Giovanni Hus, senza altro dire partí
anco d'Augusta, di dove allontanato e pensate meglio le cose sue, scrisse una lettera al cardinale,
confessando d'essere stato troppo acre e scusandosi sopra l'importunità de' questori e de' scrittori
suoi avversarii, promettendo di usar maggior modestia nell'avvenire, di sodisfar al papa e di non
parlar delle indulgenze piú; con condizione, però, che i suoi avversarii anco facessero l'istesso. Ma
né essi, né egli potevano contenersi in silenzio, anzi l'uno provocava l'altro, onde la controversia
s'inaspriva.

[Il papa sostenta le indulgenze per una bolla]
Perilché in Roma la corte parlava del cardinale con gran vituperio, attribuendo tutto il male
all'aver trattato Lutero con severità e con villanie; li attribuivano a mancamento che non gli avesse
fatto promessa di gran richezze, d'un vescovato et anco d'un capel rosso da cardinale. E Leone,
temendo di qualche gran novità in Germania, non tanto contra l'indulgenze quanto contra l'autorità
sua, fece una bolla sotto il 9 novembre 1518, dove dicchiarò la validità delle indulgenze e che esso,
come successore di Pietro e vicario di Cristo, aveva potestà di concederle per i vivi e per i morti, e
che questa era la dottrina della Chiesa romana, la quale è madre e maestra di tutti li cristiani, che
doveva esser ricevuta da qualonque vuol esser nel consorzio della Chiesa. Questa bolla mandò al
cardinale Gaetano, il qual, essendo a Linz in Austria superiore, la publicò e ne fece far molti
essemplari autentici, mandandone a ciascuno dei vescovi di Germania con commandamento di
publicarli e di commandar severamente e sotto gravi pene a tutti di non aver altra fede.
Da questa bolla vidde chiaramente Martino che da Roma e dal pontefice non poteva aspettar
altro ch'esser condannato, e sí come per l'innanzi aveva per lo piú riservata la persona et il giudicio
pontificio, cosí doppo questa bolla venne a risoluzione di rifiutarlo. Perilché mandò fuori
un'appellazione: nella quale, avendo prima detto di non voler contraporsi all'autorità del pontefice
quando insegni la verità, soggionse ch'egli non era essente dalle communi condizioni di poter fallare
e peccare, allegando l'essempio di san Pietro ripreso da san Paolo gravemente; ma ben era cosa
facile al papa, avendo tante richezze e seguito, senza rispetto d'alcuno, opprimere chi non sente con
lui; a' quali non resta altro rimedio che rifugire al concilio col beneficio dell'appellazione, poiché
per ogni ragione deve esser preposto il concilio al pontefice. Andò per Germania la scrittura
dell'appellazione e fu letta da molti e tenuta ragionevole; perilché la bolla di Leone non estinse
l'incendio eccitato in Germania.

[Per le medesime ragioni nascono turbamenti in svizzeri. Giudicii del mondo sopra questi accidenti]
Ma in Roma, avendo come dato animo alla corte non altrimenti che se il fuoco fosse estinto,
fu mandato fra Sanson da Milano, dell'ordine di san Francesco, a predicare le medesime indulgenze
ne svizzeri; il quale, doppo averle pubblicate in molti luoghi e raccolto sino a 120 mila scudi,
finalmente capitò in Zurich, dove insegnava Ulrico Zuinglio, canonico in quella chiesa; il quale
opponendosi alla dottrina del frate questore, furono tra loro gravi dispute, passando anco d'una
materia nell'altra non altrimenti di quello che era accaduto in Germania. Onde avvenne che Zuinglio
fosse da molti ascoltato et acquistasse credito e potesse parlare non tanto contra gli abusi
dell'indulgenze, ma contra l'indulgenze stesse et anco contra l'autorità del pontefice che le
concedeva.
Martino Lutero, vedendo la sua dottrina esser ascoltata et anco passar ad altre regioni, fatto
piú animoso, si pose ad essaminar altri articoli, et in materia della confessione e della communione
si partí dall'intelligenza delli scolastici e della romana Chiesa, approvando piú la communione del
calice usata in Boemia e ponendo per parte principale della penitenza non la diligente confessione al
sacerdote, ma piú tosto il proposito di emendar la vita per l'avvenire. Passò anco a parlare delli voti
e toccare gli abusi dell'ordine monastico, e caminando i suoi scritti arrivarono in Lovanio et in
Colonia, dove veduti dalle università di quei teologi et essaminati, furono da loro condannati. Né
questo turbò punto Martino, anzi gli diede causa di passar inanzi e dichiarare e fortificare la sua
dottrina quanto piú era oppugnata
Con queste piú tosto contenzioni che risolute discussioni passò l'anno 1519, quando,
moltiplicando gli avisi a Roma delli moti germanici et elvetici, aumentati con molte amplificazioni
et aggionte, come è costume della fama, massime quando si raccontano cose lontane, Leone era
notato di negligenza, che in tanti pericoli non desse mano a gagliardi rimedii. I frati particolarmente
biasimavano che, attento alle pompe, alle caccie, alle delizie et alla musica, de quali sopra modo si
dilettava, tralasciasse cose di somma importanza. Dicevano che nelle cose della fede non conviene
trascurare cosa minima, né differire un punto la provisione, la quale, sí come è facilissima prima
che il male prenda radice, cosí quando è invecchiato riesce tarda; che Arrio fu una minima scintilla
che con facilità sarebbe stata estinta, e pure abbruciò tutto il mondo; che averebbero a quell'ora fatto
altretanto Giovanni Hus e Gieronimo da Praga, se dal concilio di Costanza non fussero stati
oppressi nel principio. In contrario Leone era pentito di tutte le azzioni fatte da lui in queste
occorrenze e piú di tutto del breve delle indulgenze mandato in Germania, parendogli che sarebbe
stato meglio lasciar disputare i frati tra di loro e conservarsi neutrale e riverito da tutte le parti, che,
col dichiararsi per una, costringer l'altra ad alienarsi da lui; che quella contenzione non era tanto
gran cosa, che non bisognava metterla in riputazione, e che mentre sarà tenuta per leggiera pochi ci
pensaranno, e se il nome pontificio non fosse entrato sino allora dentro, averebbe fatto il suo corso e
sarebbe dileguata.

[Condannazione di Lutero a Roma]
Con tutto ciò, per le molte instanze de' prelati di Germania, delle università che, interessate
per la condanna, ricercavano l'autorità pontificia per sostentamento, e piú per le continue
importunità de' frati di Roma, venne in risoluzione di ceder all'opinione commune. E fece una
congregazione di cardinali, prelati, teologi e canonisti, alla quale rimesse intieramente il negozio.
Da quella con grandissima facilità fu concluso che si dovesse fulminar contra tanta impietà; ma
furono discordi i canonisti dalli teologi, volendo questi che immediatamente si venisse alla
fulminazione, e dicendo quelli che fosse necessario precedesse prima la citazione. Allegavano i
teologi che la dottrina si vedeva con evidenza empia, et i libri erano divulgati, e le prediche di
Lutero notorie; dicevano gli altri che la notorietà non toglieva la difesa che è de iure divino et
naturale, correndo alli luoghi soliti: «Adam ubi es?», «Ubi est Abel frater tuus?» e nell'occorenza
delle 5 città, «Descendam et videbo». Aggiongevano che la citazione dell'auditore dell'anno inanzi,
in virtú della quale il giudicio fu rimesso al Gaetano in Augusta e restò imperfetta, quando altro non
fosse la mostrava necessaria. Doppo molte dispute, nelle quali i teologi attribuivano a sé soli la
decisione, trattandosi di cosa di fede, et i giurisconsulti se l'appropriavano quanto alla forma di
giudicio, fu proposto composizione tra loro, distinguendo il negozio in tre parti: la dottrina, i libri e
la persona. Della dottrina, concessero i canonisti che si condannasse senza citazione; della persona,
persistevano in sostenere che fosse necessaria; però non potendo vincer gli altri, che insistevano con
maggior acrimonia e si coprivano col scudo della religione, trovarono temperamento che a Martino
fosse fatto un precetto con termine conveniente, che cosí si risolverebbe in citazione. Delli libri fu
piú che fare, volendo i teologi che insieme con la dottrina fossero dannati assolutamente, et i
canonisti che si ponessero dal canto della persona e si comprendessero sotto il termine. Non
potendosi accordar in questo, fu fatto l'uno e l'altro: prima dannati di presente, e poi dato il termine
ad abbruciarli. E con questa risoluzione fu formata la bolla, sotto il dí 15 giugno 1520, la quale
essendo come principio e fondamento del concilio di Trento di cui abbiamo da parlare, è necessario
rappresentare qui un breve compendio di quella.

[Bolla di Leone]
Nella quale il pontefice inviando il principio delle sue parole a Cristo, il quale ha lasciato
Pietro et i suoi successori per vicarii della sua Chiesa, lo eccita ad aiutarla in questi bisogni; e da
Cristo voltatosi a san Pietro, lo prega per la cura ricevuta dal Salvatore voler attendere alle necessità
della Chiesa romana, consecrata col suo sangue; et passando a san Paulo, lo prega del medesimo
aiuto, aggiongendo che se ben egli ha giudicato l'eresie necessarie per prova de' buoni, è però cosa
conveniente estinguerle nel principio; finalmente rivoltatosi a tutti i santi del cielo et alla Chiesa
universale, gli prega ad interceder appresso Dio che la Chiesa sia purgata da tanta contagione. Passa
poi a narrare come gli sia pervenuto a notizia et abbia veduto con gli occhi proprii essere rinovati
molti errori già dannati, de' greci e boemi et altri, falsi, scandalosi, atti ad offender le pie orecchie et
ingannar le menti semplici, seminati nella Germania, sempre amata da lui e da suoi predecessori, i
quali, doppo la translazione dell'Imperio greco, hanno pigliato sempre defensori da quella nazione e
da quei prencipi pii sono emanati molti decreti contra gli eretici, confermati anco dalli pontefici;
perilché egli, non volendo piú tolerare simili errori, ma provedervi, vuol recitare alcuni d'essi. E qui
recita 42 articoli che sono nelle materie del peccato originale, della penitenza e remissione de'
peccati, della communione, delle indulgenze, della scommunica, della podestà del papa,
dell'autorità de' concilii, delle buone opere, del libero arbitrio, del purgatorio, e della mendicità; i
quali dice che respettivamente sono pestiferi, perniziosi, scandalosi, con offesa delle pie orecchie,
contra la carità, contra la riverenza dovuta alla romana Chiesa, contra l'obedienza, che è nervo della
disciplina ecclesiastica; per la quale causa, volendo procedere alla condannazione, ne ha fatto
diligente essaminazione con gli cardinali e generali degli ordini regolari, con altri teologi e dottori
dell'una e l'altra legge, e per tanto gli condanna e reproba respettivamente come eretici, scandalosi,
falsi, in offesa delle pie orecchie et inganno delle pie menti e contrarii alla verità catolica, proibisce
sotto pena di scommunica e d'innumerabili altre pene che nissuno ardisca tenerli, defenderli,
predicarli o favorirli. E perché le medesime asserzioni si ritrovano nelli libri di Martino, però li
danna, commandando sotto l'istesse pene che nissuno possa legerli o tenerli, ma debbiano esser
abbrucciati cosí quelli che contengono le proposizioni predette, come qualunque altri. Quanto alla
persona di esso Martino, dice che l'ha ammonito piú volte, citato e chiamato con promessa di
salvocondotto e viatico, e che se fosse andato, non averebbe trovato tanti falli nella corte come
diceva, e che esso pontefice gli averebbe insegnato che mai i papi suoi predecessori hanno errato
nelle constituzioni loro. Ma perché egli ha sostenute le censure per un anno et ha ardito d'appellare
al futuro concilio, cosa proibita da Pio e Giulio II sotto le pene degli eretici, poteva proceder alla
condannazione senza altro; nondimeno, scordato delle ingiurie, ammonisce esso Martino e quelli
che lo difendono che debbiano desister da quelli errori, cessar di predicare, et in termine di 60
giorni, sotto le medesime pene, aver rivocati tutti gli errori sudetti et abrusciati i libri: il che non
facendo, gli dichiara notorii e pertinaci eretici. Appresso commanda a ciascuno, sotto le stesse pene,
che non tenga alcun libro dell'istesso Martino, se ben non contenesse tali errori. Poi ordina che tutti
debbano schifare cosí lui, come i suoi fautori; anzi commanda a ognuno che debbiano prenderli e
presentarli personalmente, o almeno scacciarli dalle proprie terre e regioni; interdice tutti i luoghi
dove anderanno; commanda che siano publicati per tutto e che la sua bolla debba essere letta in ogni
luogo, scommunicando chi impedirà la publicazione; determina che si creda alli transonti, et ordina
che la bolla sia publicata in Roma, Brandeburg, Misna e Manspergh.
Martino Lutero, avuto nova della dannazione della sua dottrina e libri, mandò fuori una
scrittura facendo repetizione dell'appellazione interposta al concilio, replicandola per le stesse
cause. Et oltre di ciò, perché il papa abbia proceduto contra uno non chiamato e non convinto, e non
udita la controversia della dottrina, anteponendo le opinioni sue alle Sacre Lettere e non lasciando
luogo alcuno al concilio, si offerí di mostrare tutte queste cose, pregando Cesare e tutti i magistrati
che per diffesa dell'autorità del concilio ammettessero questa sua appellazione, non riputando che il
decreto del papa oblighi persona alcuna, fin che la causa non sia legitimamente discussa nel
concilio.

[Giudicii degli uomini sopra detta bolla]
Ma gli uomini sensati, vedendo la bolla di Leone, restarono con maraviglia per piú cose.
Prima quanto alla forma, che con clausule di palazzo il pontefice fusse venuto a dichiarazione in
una materia che bisognava trattare con le parole della Scrittura divina, e massime usando clausule
tanto intricate e cosí longhe e prolisse, che a pena era possibile di cavarne senso, come se si avesse
a far una sentenza in causa feudale; et in particolare era notato che una clausula, la quale dice
«inhibentes omnibus ne praefatos errores asserere praesumant», è cosí allongata, con tante
ampliazioni e restrizzioni, che tra l'«inhibentes» et il «praesumant» vi sono interposte piú di 400
parole.
Altri, passando poco piú inanzi, consideravano che l'aver proposto 42 proposizioni e
condannate come eretiche, scandalose, false, offensive delle pie orecchie et ingannatrici delle menti
semplici, senza esplicare, quali di loro fossero le eretiche, quali le scandalose, quali le false, ma con
vocabolo «respettivamente» attribuendo a ciascuna di esse una qualità incerta, veniva a restare
maggior dubio che inanzi, il che era non diffinir la causa, ma renderla piú controversa che prima, e
mostrar maggiormente il bisogno che vi era d'altra autorità e prudenza per finirla.
Alcuni ancora restavano pieni d'ammirazione come fosse detto che fra le 42 proposizioni, vi
fossero errori de' greci già dannati. Ad altri pareva cosa nuova che tante proposizioni in diverse
materie di fede fossero state decise in Roma col solo consiglio de' cortegiani, senza participarne con
gli altri vescovi, università e persone letterate d'Europa.

[In Lovanio e Colonia sono arsi i libri di Lutero ed egli arde le decretali]
Ma le università di Lovanio e Colonia, liete che per editto pontificio fosse dato colore al
giudicio loro, abrusciarono publicamente i libri di Lutero. Il che fu causa ch'egli ancora in
Vitemberga, congregrata tutta quella scola, con forma di giudicio publicamente facesse abrusciare
non solo la bolla di Leone, ma anco insieme le decretali pontificie, e poi con un longo manifesto,
publicato in scritto, rendesse conto al mondo di quella azzione, notando il papato di tirannide nella
Chiesa, perversione della dottrina cristiana et usurpazione della potestà de' legitimi magistrati.
Ma cosí per l'appellazione interposta da Lutero, come per queste et altre considerazioni, ogni
uno venne in opinione che fosse necessario un legitimo concilio, per opera del quale non solo le
controversie fossero decise, ma ancora fosse rimediato agli abusi per longo tempo introdotti nella
Chiesa; e sempre tanto piú questa necessità appariva, quanto le contenzioni crescevano, essendo
continuamente dall'una parte e l'altra scritto. Perché Martino non mancava di confermare con
diversi scritti la dottrina sua e, secondo che studiava, scopriva piú lume, caminando sempre qualche
passo inanzi e trovando articoli ai quali nel principio non aveva pensato. Il che egli diceva fare per
zelo della casa di Dio. Ma era anco costretto da necessità, perché i pontificii avendo fatto opera
efficace in Colonia con l'elettore di Sassonia, per mezo di Gieronimo Aleandro, che desse Martino
prigione al papa o per altra via gli facesse levar la vita, egli si vedeva in obligo di mostrare a quel
prencipe et ai popoli di Sassonia et ad ogni altro che la ragione era dal canto suo, acciò il suo
prencipe o qualche altro potente non desse luogo agli ufficii pontificii contra la vita sua.

[Lutero comparisce in Vormazia in dieta imperiale. Cesare proscrive Lutero]
Con queste cose, essendo passato l'anno 1520, si celebrò in Germania la dieta di Vormazia
del 1521, dove Lutero fu chiamato con salvocondotto di Carlo, eletto due anni inanzi imperatore,
per render conto della sua dottrina. Egli era consigliato a non andarvi poiché già era publicata et
affissa la sua condanna fatta da Leone, onde poteva esser certo di non riportare se non conferma
della condannazione, se pur non gli fosse avvenuto cosa peggiore. Nondimeno, contra il parere di
tutti gl'amici, sentendo egli in contrario, diceva che, se ben fosse certo d'aver contra tanti diavoli
quanti coppi erano nelli tetti delle case di quella città, voleva andarvi, come fece.
Et in quel luogo ai 17 d'aprile, in presenza di Cesare e di tutto il convento de' principi, fu
interrogato se egli era l'autore de libri che andavano fuora sotto suo nome, de' quali furono recitati i
titoli e mostratigli gli essemplari posti in mezo del consesso, e se voleva difendere tutte le cose
contenute in quelli o ritrattarne alcuna. Rispose, quanto alli libri, che li riconosceva per suoi, ma il
risolversi di difendere o no le cose contenute in quelli essere di gran momento e pertanto avere
bisogno di spazio per deliberare. Gli fu concesso tempo quel giorno per dar risposta il seguente. Il
qual venuto, introdotto Martino nel consesso, fece una longa orazione: scusò prima la sua semplicità
se, educato in vita privata e semplice, non aveva parlato secondo la dignità di quel consesso e dato a
ciascuno i titoli convenienti; poi confermò di riconoscer per suoi i libri; e quanto al difenderli, disse
che tutti non erano d'una sorte, ma alcuni contenevano dottrina della fede e pietà, altri riprendevano
la dottrina de' pontificii, un terzo genere era delli scritti contenziosamente contra i defensori della
contraria dottrina. Quanto alli primi, disse che, se li retrattasse, non farebbe cosa da cristiano e da
uomo da bene; tanto piú, quanto per la medesima bolla di Leone, se ben tutti erano condannati, non
però tutti erano giudicati cattivi. Quanto alli secondi, che era cosa pur troppo chiara che tutte le
provincie cristiane, e la Germania massime, erano espilate e gemevano sotto la servitú; e però il
retrattare le cose dette non sarebbe stato altro che confermare quella tirannide. Ma nelli libri del
terzo genere confessò d'esser stato piú acre e veemente del dovere, scusandosi che non faceva
professione di santità, né voleva defender i suoi costumi ma ben la dottrina; che era parato di dar
conto a qualonque persona si volesse, offerendosi non esser ostinato, ma, quando li fosse mostrato
qualche suo errore con la Scrittura in mano, era per gettar i suoi libri nel fuoco. Si voltò
all'imperatore et alli prencipi dicendo esser gran dono di Dio quando vien manifestata la vera
dottrina, sí come il ripudiarla è un tirarsi adosso causa d'estreme calamità.
Finita l'orazione fu, per ordine dell'imperatore, ricercato di piana e semplice risposta, se
voleva difender o no i suoi scritti. Al che rispose di non poter revocar alcuna cosa delle scritte o
insegnate, se non era convinto con le parole della Scrittura o con evidenti ragioni.
Le quali cose udite, Cesare fu risoluto, seguendo i vestigi de' suoi maggiori, difender la
Chiesa romana et usar ogni rimedio per estinguer quell'incendio; non volendo però violar la fede
data, ma passar al bando dopo che Martino fosse ritornato salvo a casa. Erano nel consesso alcuni
che, approvando le cose fatte in Costanza, dicevano non doversi servar la fede; ma Lodovico, conte
palatino elettore, si oppose come a cosa che dovesse cadere a perpetua ignominia del nome tedesco,
esprimendo con sdegno esser intolerabile che, per servigio de' preti, la Germania dovesse tirarsi
addosso l'infamia di mancar della publica fede. Erano anco alcuni, quali dicevano che non
bisognava correr cosí facilmente alla condanna, per esser cosa di gran momento e che poteva
apportar gran consequenze.
Fu ne' giorni seguenti trattato in presenza d'alcuni de' prencipi, et in particolar
dell'arcivescovo di Treveri e di Gioachino, elettore di Brandeburg, e dette molte cose da Martino in
difesa di quella dottrina e da altri contra, volendo indurlo che rimettesse ogni cosa al giudicio di
Cesare e del consesso e della dieta, senza alcuna condizione. Ma dicendo egli che il profeta proibiva
il confidarsi negli uomini, eziandio ne' prencipi, al giudicio de' quali nissuna cosa doveva esser
manco permessa che la parola di Dio, fu in ultimo proposto che sottomettesse il tutto al giudicio del
futuro concilio, al che egli acconsentí, con condizione che fossero cavati prima dai libri suoi gli
articoli ch'egli intendeva sottoporre, e che di quelli non fosse fatta sentenzia se non secondo le
Scritture. Ricercato finalmente che rimedii pareva a lui che si potessero usare in questa causa,
rispose: quelli soli che da Gamaliele furono proposti agli ebrei; cioè, che se l'impresa era umana,
sarebbe svanita, ma se da Dio veniva, era impossibile impedirla; e che tanto doveva anco sodisfar al
pontefice romano, dovendo esser certi tutti, come egli ancora era, che se il suo dissegno non veniva
da Dio, in breve tempo sarebbe andato in niente. Dalle quali cose non potendo esser rimosso e
restando fermo nella sua risoluzione che non accettarebbe alcun giudicio se non sotto la regola della
Scrittura, gli fu dato comiato e termine di 21 giorni per tornar a casa, con condizione che nel
viaggio non predicasse, né scrivesse. Di che egli, avendone rese grazie, a 26 d'aprile si partí.
Dopo, Carlo imperatore, il giorno 8 di maggio, nel medesimo consesso di Vormazia, publicò
un editto dove, avendo prenarrato che all'ufficio dell'imperatore tocca aggrandire la religione et
estinguer l'eresie che incominciassero a nascere, passò a raccontare che frate Martino Lutero si
sforzava di macchiare la Germania di quella peste, sí che, non ovviandosegli, tutta quella nazione
era per cadere in una detestabile pernicie; che papa Leone l'aveva paternamente ammonito, e poi il
consiglio di cardinali et altri uomini eccellenti avevano condannato i suoi scritti e dichiarato lui
eretico, se fra certo termine non rivocava li errori; e di quella bolla della condanna ne aveva
mandato copia ad esso imperatore, come protettor della Chiesa, per Girolamo Aleandro suo nuncio,
ricercandolo che fosse esseguita nell'Imperio, regni, dominii e provincie sue. Ma che per ciò
Martino non si era corretto, anzi alla giornata moltiplicava libri pieni non solo di nove eresie, ma
ancora di già condannate da' sacri concilii, e non tanto in lingua latina, ma ancora in tedesca. E
nominati poi in particolare molti errori suoi, conclude non vi esser alcuno scritto dove non sia
qualche peste o aculeo mortale, sí che si può dir che ogni parola sia un veneno. Le quali cose
considerate da esso imperatore e dalli consiglieri suoi di tutte le nazioni suddite a lui, insistendo ne'
vestigii degl'imperatori romani suoi predecessori, avendo conferito in quel convento di Vormazia
con gli elettori et ordini dell'Imperio, col consiglio loro e assenso, se bene non conveniva ascoltar
un condannato dal sommo pontefice et ostinato nella sua perversità e notorio eretico, nondimeno,
per levar ogni materia di cavillare, dicendo molti ch'era necessario udir l'uomo prima che venir
all'essecuzione del decreto del pontefice, risolveva mandar a levarlo per uno di suoi araldi, non per
conoscere e giudicare le cose della fede, il che s'aspetta al solo pontefice, ma per ridurlo alla dritta
via con buone persuasioni. Passa poi a raccontare come Martino fu introdotto nel publico consesso,
e quello di che fu interrogato e ciò che rispose, sí come di sopra è stato narrato, e come fu licenziato
e partí.
Poi segue concludendo che pertanto, ad onor di Dio e riverenza del pontefice e per debito
della dignità imperiale, con consiglio et assenso degl'elettori, prencipi e stati, esseguendo la
sentenza e condanna del papa, dicchiara d'aver Martino Lutero per notorio eretico e determina che
da tutti sia tenuto per tale, proibendo a tutti di riceverlo o difenderlo in qualunque modo,
commandando sotto tutte le pene a li prencipi e stati che debbano, passato il termine delli 20 giorni,
prenderlo e custodirlo e perseguitar ancora tutti i complici, aderenti e fautori suoi, spogliandoli di
tutti i beni mobili et immobili. Commanda ancora che nissuno possi leggere o tenere i libri suoi, non
ostante che vi fosse dentro alcuna cosa buona, ordinando tanto alli prencipi quanto agli altri che
amministrano giustizia che gli abbruscino e destrugghino. E perché in alcuni luoghi sono composti
e stampati libri estratti dalle opere di quello, e sono divulgate pitture et imagini in vergogna di
molti, et anco del sommo pontefice, commanda che nissuno possi stamparne, dipingerne o tenerne,
ma dalli magistrati siano prese et abbrusciate, e puniti i stampatori, compratori e venditori;
aggiongendo una general legge che non possi essere stampato alcuno scritto dove si tratta cosa della
fede, ben che minimo, senza volontà dell'ordinario.

[Parigi oppugna Lutero, e similmente Arrigo re d'Inghilterra]
In questo medesimo tempo ancora, l'università di Parigi, cavate diverse conclusioni dalli
libri di Lutero, le condannò, parte come renovate dalla dottrina di Vigleffo e Husso, e parte
nuovamente pronunciate da lui contra la dottrina catolica. Ma queste opposizioni tutte non
causavano altro se non che, rispondendo Lutero, si moltiplicava in libri dall'una parte e dall'altra, e
le contenzioni s'inasprivano e s'eccitava la curiosità di molti che, volendo informarsi dello stato
della controversia, venivano ad avvertire gli abusi ripresi e cosí si alienavano dalla divozione
pontificia.
Tra i piú illustri contradittori che ebbe la dottrina di Lutero fu Enrico VIII, re d'inghilterra, il
qual, non essendo nato primogenito regio, era stato destinato dal padre per arcivescovo di
Canturberi e però nella puerizia fatto attendere alle lettere. Ma morto il primogenito, e dopo quello
anco il padre, egli successe nel regno, et avendo per grand'onore adoperarsi in una controversia di
lettere cosí illustre, scrisse un libro de 7 sacramenti, difendendo anco il pontificato romano et
oppugnando la dottrina di Lutero; cosa che al pontefice fu tanto grata che, ricevuto il libro del re,
l'onorò col solito titolo di difensore della fede. Ma Martino non si lasciò spaventare dal splendore
regio che non rispondesse a quella Maestà con altretanta acrimonia, veemenzia e poco rispetto, con
quanta aveva risposto ai piccioli dottori. Questo titolo regio entrato nella controversia la fece piú
curiosa, e come avviene nelli combattimenti, che i spettatori s'inclinano sempre al piú debole et
essaltano piú le azzioni mediocri di quello, cosí qui concitò l'inclinazione universale piú verso
Lutero.

[Il moto de' svizzeri continua. Il senato di Zurigo vi provede per via di conferenza]
Subito che fu per tutto publicato il bando dell'imperatore, l'istesso mese Ugo, vescovo di
Costanza, sotto la diocese del quale è posta la città di Zurich, scrisse al collegio de' canonici di quel
luogo, nel numero de quali era Zuinglio, et un'altra lettera al senato della medesima città. In quelle
considerò il danno che le chiese e le republiche ancora pativano per le novità delle dottrine, con
molto detrimento della salute spirituale, confusione della quiete e tranquillità publica. Gli essortò a
guardarsi dalli nuovi dottori, mostrando che non sono mossi se non dalla propria ambizione et
instigazione diabolica. Manda insieme il decreto di Leone et il bando di Cesare, essortando che il
decreto del papa fosse ricevuto et obedito, e quello del imperatore immitato, e notò particolarmente
la persona e la dottrina di Zuinglio e de suoi aderenti, sí che constrinse Zuinglio a dar conto di tutto
quello che insegnava alli colleghi e sodisfar il senato. E scrisse ancora al vescovo, insistendo
principalmente sopra questo, che non erano da tolerar piú longamente i sacerdoti concubinarii, di
dove veniva l'infamia dell'ordine ecclesiastico et il cattivo essempio alli popoli e la corruzzione
della vita generalmente in tutti: cosa che non si poteva levare, se non introducendo, secondo la
dottrina apostolica, il matrimonio. Scrisse ancora in propria difesa a tutti i cantoni de svizzeri,
facendo in particolare menzione d'un editto fatto dalli loro magistrati maggiori, che ogni prete fosse
tenuto ad aver la concubina propria, acciò non insidiasse la pudicizia delle donne oneste,
soggiongendo che se ben pareva decreto ridiculoso, era nondimeno fatto per necessità e non doveva
esser mutato se non che quanto era constituito al favor del concubinato, al presente doveva esser
tramutato in matrimonio legitimo.
Il moto del vescovo indusse i dominicani a predicar contra la dottrina di Zuinglio e lui a
difendersi. Perilché anch'egli scrisse e publicò 67 conclusioni, le quali contenevano la sua dottrina e
toccavano li abusi del clero e delli prelati. Onde nascendo molta confusione e dissensione, il senato
di Zurich entrò in deliberazione di sedare i tumulti, e convocò tutti i predicatori e dottori della sua
giurisdizzione. Invitò anco il vescovo di Costanza a mandar qualche persona di prudenza e dottrina
per assister a quel colloquio, a fine di quietare i tumulti e di statuire quello che fosse alla gloria di
Dio. Fu mandato dal vescovo Giacomo Fabro, suo vicario, che fu poi vescovo di Vienna, e venuto il
giorno statuito del congresso, raccolta gran moltitudine di persone, Zuinglio riprodusse le sue
conclusioni, si offerí difenderle e rispondere a qualunque avesse voluto contradirle. Il Fabro, doppo
molte cose dette da diversi frati dominicani et altri dottori contra Zuinglio, e da lui risposto, disse
che quel tempo e luogo non erano da trattare simile materia, che la cognizione di simili propositi
toccava al concilio, il qual presto si doveva celebrare, perché cosí diceva esser convenuto il
pontefice con i prencipi e maggiori magistrati e prelati della cristianità. Il che tanto piú diede
materia a Zuinglio di fortificarsi, dicendo che queste erano promesse per nudrir il popolo con vane
speranze e tra tanto tenerlo sopito nell'ignoranza; che ben si poteva, aspettando anco una piú intiera
dicchiarazione dal concilio delle cose dubie, trattar allora le certe e chiare nella Scrittura divina e
nell'uso dell'antica Chiesa. E tuttavia instando che dicesse quello che si poteva opponere alle
conclusioni sue, si ridusse il Fabro a dire che non voleva trattare con lui in parole, ma che averebbe
risposto alle sue conclusioni in scritto. Finalmente si finí il consesso, avendo il senato decretato che
l'Evangelio fosse predicato secondo la dottrina del Vecchio e Nuovo Testamento, non secondo
alcun decreto o constituzione umana.

[Il concilio viene desiderato a diversi fini e con differenti rispetti]
Vedendosi adonque che le fatiche de' dottori e prelati della Chiesa romana et il decreto del
pontefice, ch'era venuto alla condanna assoluta, et il bando imperiale cosí severo non solo non
potevano estinguer la nuova dotrina, anzi nonostante quella faceva ogni giorno maggior progresso,
ogni uno entrò in pensiero che questi rimedii non fossero proprii a tal infermità e che bisognasse
venire finalmente a quella sorte di medicina che per il passato, in simili occasioni usata, pareva
avesse sedato tutti i tumulti, il che era la celebrazione del concilio. Onde questo fu desiderato da
ogni sorte di persone come rimedio salutare et unico.
Veniva considerato che le novità non avevano avuto altra origine se non dagli abusi
introdotti dal tempo e dalla negligenza delli pastori, e però non essere possibile rimediare alle
confusioni nate, se non rimediando agli abusi che n'avevano dato causa, né esserci altra via di
proveder a quelli concordemente et uniformemente, se non con una congregazione universale. E
questo era il discorso delli uomini pii e ben intenzionati; non mancando però diversi generi di
persone interessate, a' quali per i loro fini sarebbe stato utile il concilio, ma cosí regolato e con tali
condizioni, che non potesse essere se non a favor loro e non contrario alli loro interessi.
Primieramente quelli che avevano abbracciate le opinioni di Lutero volevano il concilio con
condizione che in quello tutto fosse deciso e regolato con la Scrittura, escluse tutte le constituzioni
pontificie e le dottrine scolastiche, perché cosí tenevano certo non solo di difender la loro, ma anco
che ella sola dovess'essere approvata. Ma un concilio che procedesse come era fatto per 800 anni
inanzi non lo volevano, e si lasciavano intendere di non rimettersi a quel giudicio. E Martino usava
di dire che in Vormazia fu troppo pusillanime, e che era tanto certo della sua dottrina che, come
divina, non voleva manco sottometterla al giudicio degli angeli, anzi, che con quella egli era per
giudicare gli uomini e gli angeli tutti. I prencipi et altri governatori de' paesi, non curando molto
quello che il concilio dovesse risolvere intorno alle dottrine, lo desideravano tale che potesse ridurre
i preti e frati al loro principio, sperando che per quel mezo ad essi dovessero tornare i regali e le
giurisdizzioni temporali, che con tanta abondanzia et ampiezza erano passate nell'ordine
ecclesiastico. E però dicevano che vano sarebbe far un concilio dove soli i vescovi et altri prelati
avessero voto deliberativo, perché essi dovevano essere riformati, et era necessario che altri ne
avessero il carico, quali dal proprio interesse non fossero ingannati e costretti a risolvere contra il
ben commune della cristianità. Quelli del popolo, ancora che avessero qualche cognizzione delle
cose umane, desideravano moderata l'autorità ecclesiastica e che non fossero cosí aggravati i miseri
popoli con tante essazzioni, sotto pretesto di decime, limosine d'indulgenze, né oppressi dalli
ufficiali de' vescovi, sotto pretesto di correzzioni e di giudicii. La corte romana, parte
principalissima, desiderava il concilio in quanto avesse potuto restituire al pontefice l'obedienzia
che gli era levata, et approvava un concilio secondo le forme nelli prossimi secoli usate; ma che
quello avesse facultà di riformar il pontificato e di levare quelle introduzzioni dalle quali la corte
riceveva tanti emolumenti e per le quali collava in Roma gran parte dell'oro della cristianità, questo
non piaceva loro. Il pontefice Leone, angustiato da ambedue le parti, non sapeva che desiderare.
Vedeva che ogni giorno l'obedienzia andava diminuendosi et i popoli intieri separandosi da lui, e ne
desiderava il rimedio del concilio; il quale, quando considerava dover esser peggior del male,
portando la riforma in consequenza, l'aborriva. Andava pensando via e modo come far un concilio
in Roma o in qualche altro luogo dello Stato ecclesiastico, come il suo predecessore et esso avevano
celebrato pochi anni innanzi il Lateranense con buonissimo frutto, avendo con quel mezo sedato lo
scisma, ridotto il regno di Francia ch'era separato e, quello che non era di minor importanza, abolita
la Pragmatica Sanzione, doppiamente contraria alla monarchia romana, sí perché era un essempio di
levarli tutte le collazioni de' beneficii, gran fondamento della grandezza pontificia, come anco
perché era una conservazione della memoria del concilio basileense, e per conseguente della
soggezzione del pontefice al concilio generale. Ma non vedeva poi come un concilio di quella sorte
potesse rimediar al male, il quale non era nelli prencipi e gran prelati, appresso i quali vagliono le
prattiche et interessi, ma era nei popoli, con quali averebbe bisognato realtà e vera mutazione.

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